L'accusa: "De Benedetti sapevache respiravamo il veleno"
Due ex segretari Fiom: "Gli operai non furono avvisati sul talco all'amianto". Eppure l'azienda conosceva i rischi mortali fin dal 1974
A Ivrea l'inchiesta sulle vittime dell'amianto in Olivetti rischia di allargarsi ben oltre i confini piemontesi. Infatti il talco killer utilizzato dai lavoratori almeno sino al 1981 era spedito anche in altre città, da Crema e Pozzuoli. Soprattutto nei reparti dove si montavano le macchine da scrivere. Ma su questo punto le indagini sono all'inizio e vige la consegna del silenzio. Forse perché tra gli indagati per omicidio e lesioni colpose spiccano i nomi di Carlo De Benedetti e di Corrado Passera, rispettivamente ex presidente ed ex amministratore delegato dell'azienda. Ieri la Cgil ha inaugurato lo sportello amianto e in un'improvvisata conferenza stampa l'argomento del giorno è stata proprio la questione del talco killer e la sua diffusione, come anticipato da Libero, oltre i confini piemontesi. «All'Olivetti non hanno mai detto ai lavoratori né ai sindacati che quella sostanza era tossica» denunciano all'unisono Giuseppe Capella e Ezio Sciandra, entrambi ex segretari della Fiom di Ivrea. Tra le ventuno vittime di cui si sta occupando l'inchiesta c'è anche un loro ex collega, Marcello Costanzo ex delegato del consiglio di fabbrica nello stabilimento di San Bernardo, alle porte di Ivrea. Per i magistrati è ormai certo: nel 1981 l'azienda sapeva di aver utilizzato per anni un talco micidiale per polmoni e pleura dei suoi lavoratori, ma non ha detto niente. In realtà in Olivetti, da quanto risulta dagli atti in possesso degli inquirenti, l'emergenza amianto era nota almeno dal 1974 e ai piani alti era tema di scambi epistolari riservatissimi. Il pericolo doveva rimanere conosciuto a pochi. Un segreto terribile soprattutto dopo che il professor Enea Occella del Politecnico di Milano, aveva decretato nel febbraio 1981 che nel talco usato per maneggiare la componentistica in gomma c'era una percentuale di fibre di amianto cinquecento volte superiore ai «limiti ritenuti accettabili» all'epoca negli Usa. «Quel veleno veniva utilizzato in moltissime produzioni. Serviva a rendere maneggevoli i componenti di gomma o le guaine dei cavi. Addirittura i piedini delle ventole di alcuni calcolatori venivano consegnati dentro a sacchetti di nylon pieni di talco» rimarcano alla Cgil. Quei sacchetti venivano confezionati direttamente da una ditta della galassia Olivetti a Sparone (Torino). Ma gli operai che usavano il talco non erano protetti in nessun modo: «Non avevano mascherine né altra protezione. E nessuno ci ha mai parlato dei rischi». Quando i sindacalisti registravano un'impennata di bronchiti, magari tra chi lavorava in mezzo alla polvere, chiedevano spiegazioni con scarsa fortuna: «Ricevevamo risposte evasive. Per questo, all'epoca, abbiamo fatto mettere a verbale le nostre richieste e le loro repliche. Tutta documentazione che stiamo cercando nei nostri archivi» continuano Capella e Sciandra. Dove veniva usato il talco killer? «Soprattutto dove c'era il montaggio delle macchine da scrivere e dei cavi». Veri reparti della morte per chi ci lavorava (vedere tabella in alto). Il 4 febbraio 1981 il Servizio ecologia dell'azienda chiede al settore merceologico di «inviare l'elenco dei centri che hanno prelevato il codice in oggetto negli ultimi dodici mesi». Ovvero la polvere contenente la micidiale tremolite d'amianto. Tra le carte dell'inchiesta della procura di Ivrea c'è probabilmente anche la risposta. Un appunto stilato a mano da un anonimo estensore con l'elenco di otto reparti e il loro numero identificativo: la «finitura» di Crema; «montaggio» macchine da scrivere di Pozzuoli; «reparto cavi» e «il montaggio Galaxy» della Ico di Ivrea; il capannone C di Scarmagno (Torino), dove si trovava il Gruppo informatica distribuita; il «montaggio della stampante 1000» di Aglié (Torino) e la «riproduzione copie» di Palazzo uffici, lo stesso dove sedeva l'ex vicepresidente e poi presidente De Benedetti, ma ai piani alti. Però i reparti a rischio, secondo i sindacalisti, non sono solo questi: «Le lavorazioni nei vari reparti cambiavano continuamente». L'elenco di cui sopra era, probabilmente, la fotografia della situazione nel febbraio 1981. Negli anni successivi resta il problema della bonifica degli impianti come risulta da un'altra lettera «riservata» del 27 ottobre 1987 in cui viene fatto il censimento delle aree a rischio. Purtroppo il lavoro di bonifica procede a rilento e viene realizzato in modo approssimativo, come già documentato da Libero. «Non avevamo sentore che anche quello fosse un pericolo per la salute, pensavamo che fosse rischiosa solo la lavorazione diretta delle lastre di amianto» concludono alla Cgil. Intanto l'inchiesta prosegue e non sembra promettere sconti per chi non ha preso i provvedimenti necessari a tutelare l'incolumità degli operai. Ex dirigenti in testa. Resta da capire se sia possibile ripartire le responsabilità, risalendo con precisione al momento in cui le vittime abbiano contratto la malattia. Il modo lo spiega a Libero il dottor Pavilio Piccioni, specialista in fisiopatologia respiratoria e medicina del lavoro, uno dei super consulenti della procura di Ivrea, in passato ingaggiato dall'accusa nel processo alla Eternit di Casale Monferrato (Alessandria): «I tumori e le patologie neoplastiche hanno tempi di incubazione lunghi e quando si manifestano non sono databili. Ci sono, però, malattie non cancerogene originate dall'amianto, come l'asbestosi e le placche pleuriche, che grazie a prove funzionali e a radiografie periodiche è possibile datare; hanno un andamento progressivo come le limitazioni funzionali a esse correlate. Clinicamente siamo in grado di “temporizzarle” con esami ordinari». Sono loro le spie che potrebbero incastrare i responsabili di questa mattanza in terra di Piemonte. di Giacomo Amadori