Così il Papasi sta liberandodai suoi "padroni"
Francesco ha rivitalizzato il papato riportandolo all'essenzialità. E così ha l'arma migliore contro clericalismo, nichilismo e persecuzioni: il Vangelo
La Chiesa Cattolica vive una stagione di svolte epocali. La rinuncia al papato di Benedetto XVI, a febbraio, è stato un gesto storico di enorme portata, che ha messo in evidenza la drammaticità dei tempi. L'arrivo poi, sulla Cattedra di Pietro, il 13 marzo, di papa Francesco è, fin dalla scelta del nome, l'inizio di una «rivoluzione» evangelica che già commuove i popoli (lo vedremo anche in Brasile col prossimo viaggio). Di sicuro cambierà il Vaticano come lo conosciamo da alcuni secoli: da «corte rinascimentale» (per dirla con papa Bergoglio) diventerà la casa del Re umile e crocifisso, che abbraccia - come il colonnato del Bernini - tutte le miserie del mondo. L'altro ieri un amico ed ex alunno del papa, lo scrittore e giornalista argentino Jorge Milia, ha riferito i suoi colloqui telefonici col pontefice. E ha dato flash illuminanti. Ha sottolineato anzitutto «la riconoscenza e la tenerezza» che Francesco ha per il suo predecessore: «A me fa un po' l'effetto di uno che ha ritrovato un vecchio amico». «Non ti immagini l'umiltà e la saggezza di quest'uomo», gli ha detto papa Francesco parlando di Benedetto XVI. «Allora tienilo vicino», gli ha risposto lo scrittore. E il papa: «Non ci penso nemmeno a rinunciare al consiglio di una persona del genere, sarebbe sciocco da parte mia!». Poi Jorge Milia ha parlato della gran quantità di gente che accorre in piazza San Pietro per sentire le sue parole e abbracciarlo. E Francesco: «Lo devono poter fare! È mio dovere ascoltarli, confortarli, pregare con loro, stringergli le mani perché sentano che non sono soli». Ma Francesco ha aggiunto che non è facile far capire questa necessità in Vaticano, dove sono abituati a un'immagine del papa come entità inaccessibile. «Non è stato facile, Jorge, qui ci sono molti “padroni” del Papa e con molta anzianità di servizio», ha detto il Santo Padre. Ha fatto capire che ogni cambiamento è durissimo da far digerire. A cominciare dalla scelta di non andare ad abitare il mitico «appartamento» papale. Egli ha preso questa decisione perché molti papi lassù hanno finito col diventare «prigionieri» delle loro segreterie e non voleva che accadesse così anche a lui: «Sono io che decido chi vedere, non i miei segretari…». Jorge Milia aggiunge: «Mi ha detto che i papi sono stati isolati per secoli e che questo non va bene, il posto del Pastore è con le sue pecore…». È un pensiero che il pontefice ha espresso più volte. Può sembrare solo una sua personale propensione alla cordialità, all'affabilità, alla compassione, ma non è solo questo. È molto di più. È una rivoluzione nella concezione del papato. Almeno quella dell'ultimo millennio. Certo, già i suoi predecessori, a partire da Paolo VI, hanno iniziato un progressivo smantellamento della pesantezza regale della Curia. Giovanni Paolo II preferiva stare per le strade del mondo, anziché in Vaticano. E Benedetto XVI ha sparato fulmini contro «carrierismo, clericalismo, mondanità, divisioni, ambizioni di potere», ha richiamato anche lui alla povertà evangelica e ha usato la bomba atomica contro «la sporcizia nella Chiesa». Ora c'è papa Francesco e ha cominciato a realizzare (pare in modo travolgente) tutto quello che il predecessore aveva chiesto mille volte. Ma ciò che si preannuncia non è solo un rinnovamento di persone (tipico di ogni pontificato) e un forte cambiamento delle strutture: è un radicale mutamento del modo stesso di fare il papa. Francesco cerca di riportare tutta la Chiesa all'essenziale, alle sue origini apostoliche, in una parola: a Gesù Cristo. Come fece san Francesco nel XII secolo. Il giovane di Assisi era nella cadente chiesina di San Damiano, quando si sentì rivolgere dal Crocifisso queste parole: «Va', Francesco, e ripara la mia casa che, come vedi, va in rovina». Lui le interpretò alla lettera e si mise a ricostruire materialmente quella cappellina. Ma la sua pronta sequela alle parole di Gesù riparò tanti cuori feriti e alla fine la Chiesa stessa come edificio spirituale. Così è per il papa che ha scelto il nome del santo di Assisi. Anche lui ricomincia dall'essenziale, l'annuncio di Gesù, consolazione e tenerezza di Dio per gli uomini e specialmente per i più poveri e sofferenti. Le altre due parole chiave di questo pontificato sono la «misericordia» («Dio perdona sempre, perdona tutto. Siamo noi che ci stanchiamo di farci perdonare») e la «preghiera» (ripete sempre: «È necessaria una preghiera forte, e questa preghiera umile e forte fa che Gesù possa fare il miracolo… Una preghiera coraggiosa, che lotta per arrivare a quel miracolo La preghiera fa miracoli, ma dobbiamo credere!»). Non è che a papa Francesco sfugga l'enormità dell'attacco che il mondo, su tutti i fronti, sta portando alla Chiesa. Ma di che natura è questo attacco? Permangono le grandi persecuzioni ai cristiani in tutto il mondo islamico e sotto i regimi tirannici (dalla Cina al Vietnam, da Cuba ai diversi paesi africani). E a questo, dopo il crollo del comunismo in Europa, venti anni fa, quando la Chiesa non serviva più come argine contro il marxismo, si è sommata l'ostilità anticristiana che dilaga dagli Usa di Clinton e di Obama, all'Europa della tecnocrazia. Si attacca non solo la fede cristiana, ma anche le fondamenta della legge naturale: la famiglia, unione di uomo e donna, che è stata la base di tutte le civiltà, dall'antichità prima di Cristo ad oggi, è ormai radicalmente travolta e svuotata. Dagli anni di Clinton (che videro anche il dirompente ingresso nel Wto della Cina) è stata proclamato nel mondo occidentale il nuovo «pensiero unico»: una totale «deregulation» sia degli scambi economico-finanziari che dei rapporti umani. Nel primo caso - con l'esplosione della bolla finanziaria del 2008 - si è giunti sull'orlo della bancarotta planetaria. Nel secondo caso, a una svolta devastante nella storia della civiltà. C'è stata pure la parentesi «conservatrice» di George Bush jr che, dopo l'11 settembre 2001, tendeva ad arruolare la religione cristiana in una sorta di «scontro di civiltà» e di religioni con l'islam. E la Chiesa di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI - che pure conoscevano le sofferenze dei cristiani sotto l'islam - ha dovuto rifiutare quell'arruolamento: sia perché sarebbe stato empio mettere il sigillo di Cristo a dei conflitti che avevano lo scopo di garantire l'approvvigionamento energetico dell'Occidente, sia perché a pagarne le conseguenze sarebbero state le minoranze cristiane nei paesi islamici (come in effetti è accaduto). Adesso che la Chiesa è sotto un assedio perfetto - da una parte Usa ed Europa anticristiani - dall'altra i regimi persecutori in Asia, Africa e paesi musulmani, papa Francesco esce da questa tenaglia storica - che minaccia la sopravvivenza stessa della Chiesa - con l'unica arma irresistibile con cui la Chiesa ha sempre vinto nel corso dei secoli sulle persecuzioni: il Vangelo (o, come direbbe il Papa, «la grazia»). È falso che il papa - come gli rimproverano i cattoconservatori e come desidererebbero i cattoprogressisti - abbia accantonato l'insegnamento dei predecessori sui «valori non negoziabili» (lo dimostra la sua prima enciclica «Lumen Fidei»). Semplicemente papa Francesco sa che, al punto in cui siamo arrivati, non ha più senso che la Chiesa si sfianchi in una battaglia culturale o in un'azione politica per scongiurare, con mezzi umani, il crollo di una civiltà e le «invasioni barbariche». La Chiesa sa che solo la grazia di Cristo le è indispensabile. Ecco perché oggi il papa chiede la conversione (a cominciare dallo smantellamento della «curia rinascimentale»); la preghiera incessante che ottiene miracoli; lo stupore per Gesù che «bacia le sue piaghe» nei poveri, nei malati e nei disperati; l'annuncio e l'esperienza della misericordia di Dio per gli uomini. È così che duemila anni fa il cristianesimo ha conquistato pacificamente il mondo e lo ha ricostruito. E così accadrà di nuovo.