Salario minimo, un doppio errore: ecco chi ci perde e chi ci guadagna
Si parla molto in questi giorni di salario minimo. E si è festeggiato molto l'accordo raggiunto in Europa che dovrebbe portare nell'arco di qualche mese all'approvazione di una direttiva in materia. Il provvedimento non obbliga gli Stati membri a introdurre salari minimi legali, né fissa un livello comune degli stipendi in tutta l'Ue. Ma mira a definire un quadro generale che garantisca adeguate retribuzioni di base a tutti i lavoratori. Per far questo la direttiva da una parte invita tutti i Paesi a introdurre una soglia minima sotto il quale la paga non possa mai scendere e dall'altra li invita a raggiungere una quota della contrattazione collettiva che riguardi almeno l'80% dei lavoratori. Questo perché, si sottolinea, è dimostrato che i Paesi caratterizzati da un'elevata copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere una percentuale inferiore di lavoratori a basso salario, minori disuguaglianze retributive e stipendi più elevati. In Italia l'intesa è stata salutata come una svolta epocale dall'asse M5S-Pd e dalla Cgil. Molte perplessità ha invece sollevato nel centrodestra, in Confindustria e anche nella Cisl. Chi ha ragione? Al di là del fatto che la direttiva, come spesso accade in Europa quando si deve raggiungere un accordo unanime, impone ben poco, l'impostazione del provvedimento è caratterizzato da un doppio errore. Da un lato si vuole spingere l'Italia, che è ipersindacalizzata e ha il 90% dei lavoratori coperti da contratti collettivi nazionali, a introdurre un salario minimo che è di fatto già garantito e porterebbe solo altre tensioni tra le parti sociali, dall'altro lato si vuole spingere la gran parte dei Paesi europei, che hanno un mercato del lavoro più flessibile e proteggono i lavoratori fissando un salario minimo, ad aumentare il peso della contrattazione sindacale, con il rischio di ingessare tutto il sistema. Ma non era meglio lasciare tutto com'è?