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Il miracolo italiano del professor Micera: "Restituisco il tatto (bionico) a chi ha perso le mani"

Già la definizione ti fa sognare: tatto bionico. Quando, poi, capisci a cosa sei di fronte - percepire forme e caratteristiche di un oggetto senza toccarlo, mettendo in collegamento una protesi con i nervi del braccio e quindi con il cervello - ti sembra di entrare in una dimensione lontana che sa di futuro. Ma che invece è presente. È realtà. Perché un gruppo di ricercatori italiani ha realizzato qualcosa di sensazionale: ha fatto percepire ad un amputato la texture e la differenza tra superfici lisce o rugose in tempo reale - come se non avesse perso l'arto - utilizzando un dito artificiale connesso ai nervi del braccio. Incredibile, sì. A raccontarci e illustrarci i risultati di questo lavoro cui hanno collaborato Scuola Superiore Sant'Anna, Politecnico di Losanna, Irccs San Raffaele Pisana, Università Cattolica del Sacro Cuore e Università Campus Bio-Medico di Roma è lo scienziato Silvestro Micera, 44 anni, coordinatore dei progetti LifeHand e LifeHand 2 e responsabile dell'Area di Neuroingegneria e delle attività relative al controllo neurale di protesi di mano all'Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa. «Piacere, Silvestro Micera». Piacere e partiamo da qui, dalle nostre mani: ce le siamo strette per salutarci e siamo entrati in contatto. In più, ogni giorno tocchiamo oggetti, verifichiamo la loro consistenza, capiamo la superficie, sentiamo la temperatura. È la magia del tatto.   «Che non è altro che un meccanismo che ci dà le informazioni sul mondo esterno. La mano è la parte del nostro corpo più ricca di sensori tattili. Pensi solo a una cosa: se tocca un oggetto e chiude gli occhi riesce comunque a capire cosa è, come è fatto. Se lo stringe capisce la consistenza e la forma. Ora immagini di essere privato di tutte queste informazioni».  Cioè di non avere più la mano?  «Esatto, proprio quello che accade agli amputati. Si complica tutto e ci si deve affidare solo agli altri sensi. Un bel problema».  Verissimo. Però esistono le protesi che ci permettono di afferrare qualsiasi cosa.  «Certo, ma solo afferrare e non “sentire”».  E cosa può aggiungere il fatto di riacquistare anche un tatto base? Perdoni la domanda un po' cinica: fa così la differenza capire se un oggetto è ruvido o liscio? Non basta poterlo prendere?  «Cambia tutto, invece. Le informazioni sensoriali aiutano a prendere meglio. Inoltre, nella testa dell'amputato, le info sul tatto portano ad accettare la propria protesi anziché rifiutarla».  In che senso?  «Esiste un fenomeno chiamato embodiment, che è la capacità di sentire l'arto artificiale come proprio. Molti, purtroppo, non arrivano a questo risultato e, anzi, continuano a vivere la protesi come qualcosa di esterno, avendone quasi un rigetto mentale. Offrire informazioni sensoriali potrebbe risolvere questo problema».  Quindi il lavoro sul tatto bionico nasce più per una questione psicologica che meccanica?  «Direi di sì. A Losanna lavoro con un neurologo sensoriale che si chiama Olaf Blanke: mi ha raccontato e spiegato cose incredibili su come agisce il nostro cervello».  Tipo?  «Sa perché viviamo senza sentire il tum tum del battito cardiaco? Perché il cervello spegne la percezione di quel rumore per evitare di farci avere ansia».  Interessante. Altro?  «Un bravissimo clinico mio amico, il dottor Franco Molteni, con cui io e Olaf lavoriamo, mi ha spiegato che facendo disegnare il proprio corpo alle persone che hanno avuto un ictus, spesso si scopre che nei loro autoritratti mancano le parti rimaste offese. Capito? Il cervello le cancella. Senza contare che gli amputati continuano a sentire l'arto che non hanno più, a volte con dolore: come se ogni dito fosse conficcato nella mano. Sono tutte rielaborazione mentali. Ma poi...».  Poi cosa?  «Senta questa. Olaf è capace, riproducendo un semplice tocco meccanico sulla spalla di una persona, di far sì che il soggetto in questione abbia la sensazione di avere un fantasma dietro di sé. Una specie di inganno dei sensi».  Pazzesco. E come fa? Perché ride?  «Ogni volta me lo spiega e mi sembra di aver capito, ma quando esco dalla sua stanza mi rendo conto di non ricordare nulla. Dovrebbe chiederlo a lui...».  Torniamo al vostro progetto. Lei come si è avvicinato?  «Per caso 20 anni fa: i mie “superiori” di oggi - Paolo Dario e Patrick Aebischer - avevano appena cominciato il primo lavoro sulla protesi bionica e io mi sono aggregato. Poi sono diventato il responsabile del progetto LifeHand che aveva come obiettivo di verificare se e come interfacce neurali impiantate nei nervi periferici potessero permettere di realizzare una mano “bionica”».  Ci siete riusciti nel 2008.  «Abbiamo sperimentato con successo il primo controllo diretto di una protesi di mano mediante queste interfacce in un paziente amputato».  Troppo difficile detta cosi. Semplifichiamo.   «Siamo riusciti a muovere una mano artificiale attraverso il dialogo diretto tra protesi e cervello, passando direttamente ed esclusivamente dal sistema nervoso».  Con LifeHand 2, ora, avete aggiunto anche il tatto e sulla rivista scientifica eLife diretta dal premio Nobel Randy Schekman è stato pubblicato il vostro studio che ha portato a far percepire a un amputato la differenza tra superfici lisce o rugose.  «Il paziente con cui abbiamo lavorato è un danese: Dennis Aabo Sorensen di 36 anni. Nel Capodanno 2004, dieci minuti dopo la mezzanotte, gli è esploso un petardo nella mano sinistra ed è stato costretto all'amputazione della parte finale del braccio. È stato lui il nostro eroe».   Perché lo chiama così?  «Ha accettato di donare numerose settimane della sua vita per sottoporsi, nel giro di un mese, a un doppio intervento chirurgico e poi è stato a disposizione di un'equipe di medici e ingegneri per una lunga lista di test, esercizi e prove sperimentali».  Ora, però cerchi di farci capire come è possibile: partendo dal cervello per arrivare a muovere la protesi si passa dai muscoli, e fin qui ci siamo. Ma per il procedimento contrario come funziona?  «Le informazioni che partono dal sensore del dito artificiale vanno ai nervi che, sempre secondo particolari algoritmi che producono stimoli elettrici, mandano impulsi al cervello. Che percepisce la sensazione di liscio, ruvido e le varie forme degli oggetti».   Ok, ma il paziente come le avverte queste sensazioni?  «Dennis racconta di sentirle come nell'altra mano. In realtà le sente nella mano fantasma, nelle dita che non ha più».  Per arrivare questo risultato è stato necessario un intervento chirurgico.  «Sorensen è stato operato il 26 gennaio 2013 a Roma, al Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma, dal neurochirurgo Eduardo Marcos Fernandez con la supervisione del direttore dell'istituto di Neurologia Paolo Maria Rossini. Quasi otto ore di intervento per impiantare nel braccio di Denis quattro elettrodi poco più grandi di un capello, su cui erano presente più di 50 contatti utili alla trasmissione di segnali».  Dopo l'operazione è stato necessario un training?  «Sì. Sorensen ha trascorso tre settimane al Centro ricerche Irccs San Raffaele Pisana di Roma effettuando ogni giorno diverse ore di test per imparare a riconoscere e classificare gli impulsi elettrici».  Il passaggio successivo?  «Io e il mio gruppo abbiamo sviluppato una serie di algoritmi capaci di trasformare in un linguaggio comprensibile al cervello del paziente le informazioni provenienti dalla mano artificiale».  Poi otto giorni di test, dal 16 al 23 febbraio.  «Tantissimi e di vario genere: per modulare la forza della presa, per la consistenza degli oggetti, per le dimensioni e per le forme, per la posizione dell'oggetto sulla mano, fino appunto all'informazione di liscio e ruvido: quest'ultimo test con la collaborazione del dottor Calogero Oddo sempre della Scuola Sant'Anna».  Ovviamente Denis non vedeva e non sentiva.  «Indossava mascherina e cuffie con la musica».  È stato un successo.  «Ha riconosciuto la consistenza degli oggetti duri, intermedi e morbidi in oltre il 78 per cento di prese effettuate e nell'88 per cento dei casi ha definito dimensioni e forme degli oggetti, riuscendo a dosare con precisione non troppo distante da quella di una mano naturale la forza da applicare per afferrarli».  Ora Denis, quindi, riesce a utilizzare la protesi quasi come fosse un braccio normale?  «No. Il 24 febbraio 2013 è scaduto il termine di 30 giorni per i quali era stato autorizzato l'impianto, dunque gli elettrodi sono stati rimossi con una nuova operazione. Anche per questo, prima, lo definivo un eroe».  Già da bambino lei era interessato alla medicina?  «No, ma al liceo scientifico ho iniziato ad appassionarmi alla fantascienza. E in particolare a “L'uomo da sei milioni di dollari”».   Cioè l'uomo bionico: ecco, allora, chi l'ha ispirata. Quando potrà essere utilizzato clinicamente il tatto bionico?  «Spero entro cinque anni».  Quanto costa una protesi?  «Tra i 20 e 30 mila euro».  Il tatto potrebbe aiutare gli amputati di gambe?  «Certo. Potrebbe migliorare la qualità del loro cammino».  Guardiamo molto avanti: fino a che punto potremo spingerci lavorando sul collegamento nervi-cervello?  «Si potranno ottenere buoni risultati anche in altri campi. Per esempio nel caso di ictus o lesioni del midollo spinale». di Alessandro Dell'Orto

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