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Africa, ecco perché le donazioni azzoppano la crescita del continente

Maurizio Stefanini
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Avete presente quelle pubblicità che appaiono spesso in tv chiedendo finanziamenti in realtà minimi per provvedere alimentazione e medicine a bambini africani dall’aspetto sofferente che vi vengono appunto mostrati? Nessun dubbio sulle buone intenzioni e neanche sull’efficacia del particolare intervento concreto, ma il tutto contribuisce a perpetuare tra i media internazionali stereotipi negativi che costano all’intera Africa l’equivalente di oltre 3,8 miliardi di euro all’anno. Il calcolo è stato fatto in un rapporto a cura della società di consulenza Africa Practice e dall'organizzazione non-profit di patrocinio Africa No Filter, secondo cui l’attenzione insistita su conflitti, corruzione, povertà, malattie e carenza di leadership aumenta la percezione del rischio, e così fa lievitare gli interessi sul debito sovrano, che poi sono gli stessi africani a dover ripagare.

«Abbiamo sempre saputo che le persistenti narrazioni stereotipate dei media sull'Africa hanno un costo. Ora siamo in grado di quantificarlo in modo reale», ha affermato Moky Makura, direttore esecutivo di Africa No Filter. Ad esempio, lo studio confronta la copertura mediatica globale delle elezioni in quattro Paesi africani come Kenya, Nigeria, Sudafrica ed Egitto con i resoconti sui Paesi non africani con “profili di rischio” simili: la Malaysia per Kenya e Nigeria; la Danimarca per il Sudafrica; la Thailandia per l’Egitto. Ne risultava che mentre «in genere, la copertura elettorale è strettamente focalizzata sulla corsa dei cavalli tra il partito in carica e il principale partito o i principali partiti di opposizione», invece in Africa si batte su storie di violenza e corruzione. Conseguenza: i prestatori vedono più rischi di quanti non ve ne siano davvero, e chiedono interessi più alti. La cifra stimata, che non tiene peraltro conto dell’impatto su altri fattori tipo il turismo, gli investimenti diretti esteri e gli aiuti, basterebbe a finanziare l'istruzione per oltre 12 milioni di bambini, le vaccinazioni per oltre 73 milioni o «acqua potabile pulita per due terzi della popolazione nigeriana».

Su un versante diverso, è però un po’ il tipo di polemica che l’economista di origine zambiana Dambisa Moyo portò avanti nel 2009 nel suo best-seller “La carità che uccide. Come gli aiuti dell'Occidente stanno devastando il Terzo mondo”. L'essenza del modello degli aiuti vi era fotografata nella storia di quella star che volendo aiutare un Paese a combattere la malaria promosse una campagna che lo riempì di zanzariere gratis, rovinando i produttori locali. Così che poi quando le zanzariere dell'aiuto dopo un po' si rovinarono non ci furono più artigiani locali in grado di sostituirle, e la malaria tornò peggio di prima. La lezione era che, prima di tutto se avesse voluto fare veramente il bene dell'Africa la star avrebbe dovuto comprare le zanzariere dai produttori locali. Meglio ancora, se avesse promosso crediti per aiutare loro a produrre zanzariere a buon mercato. Meglio di tutto se fosse riuscita anche ad aprire il mercato dell'Occidente ai produttori di zanzariere africani. La crescita vera, spiegò, viene dal commercio, e non dagli aiuti.

Mutatis mutandis, è il problema della emigrazione come è stato fotografato da esempio in una presa di posizione comune assunta dall’Unione Africana nel 2006. «La migrazione può essere uno strumento efficace per lo sviluppo», metteva le mani avanti. Dopo aver però riconosciuto che «la povertà è una delle principali cause della migrazione» e che «creare opportunità di sviluppo nei paesi di origine mitigherebbe le principali ragioni per cui i giovani si impegnano nella migrazione» ricordava che la «fuga dei cervelli» è un problema «di grande preoccupazione per i paesi africani poiché le competenze essenziali per lo sviluppo nella regione (vengono così) perse, peggiorando la capacità già inadeguata di affrontare le sfide dello sviluppo. Molte parti del continente africano sono attualmente colpite da una carenza di risorse umane qualificate, creata in parte dalla partenza su larga scala di professionisti e laureati universitari. Migliaia di professionisti africani, tra cui medici, infermieri, contabili, ingegneri, manager e insegnanti, lasciano ogni anno il loro paese d'origine per cercare migliori prospettive in altri Paesi, sia dentro che fuori dal continente». Insomma, «mentre questo movimento può avere alcuni effetti benefici limitati in alcune località, nei Paesi in via di sviluppo questa fuga di cervelli è un ostacolo per lo sviluppo sostenibile».

 

 

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