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Schlein e Pd usano i migranti come arieti anti-Meloni

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Prepariamoci al nuovo rito politico di primavera: i referendum. Ne avremo un assaggio tra pochi mesi e promette di ripetersi per anni. Nel 2025, «in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno» come prescrive la legge, e sempre che la Corte Costituzionale non abbia da ridire, gli italiani saranno chiamati ai seggi per votare nuovi quesiti abrogativi: due, probabilmente tre, visto come stanno andando le cose con l’ultimo arrivato.

Potenzialmente il più deflagrante di tutti, quello con cui la sinistra vuole ridurre il requisito del periodo di residenza in Italia da dieci a cinque anni, consegnando così la cittadinanza – subito – a oltre due milioni di immigrati.

 

 

 

Cosa è cambiato? Semplicemente che raccogliere quelle cinquecentomila firme previste dalla Costituzione per proporre un referendum è diventato semplice come raccogliere adesioni per una campagna di Change.org, il sito dove chiunque può sentirsi parte della grande indignazione collettiva e – per esempio – chiedere a Giorgia Meloni di convincere Israele «a mettere in atto un cessate il fuoco immediato» (503.950 adesioni ieri sera, una più inutile dell’altra). Un decreto di Mario Draghi del settembre 2022 autorizza infatti i promotori a raccogliere online le firme per richiedere il referendum abrogativo e fissa le regole per la loro certificazione. Basta lo Spid o la carta d’identità elettronica, che quasi tutti ormai hanno, e in pochi minuti è fatto. Da qui in poi, e finché il numero di richiedenti rimarrà fissato a quota mezzo milione (e per innalzarlo occorre cambiare la Costituzione), sarà facilissimo trovare le adesioni necessarie.

Un’arma troppo a buon mercato per resistere alla tentazione di usarla contro il governo. A luglio la Cgil ha depositato alla Corte di Cassazione quattro milioni di firme per cancellare il Jobs Act, d’intesa col Pd: Matteo Renzi, che quella legge l’aveva firmata, se n’è dovuto fare una ragione. Era solo il preludio. Il sindacato di Maurizio Landini e i partiti di opposizione (tutti tranne Azione) che promuovono il referendum contro l’autonomia differenziata - il cuore del programma leghista hanno iniziato a raccogliere le firme online il 26 luglio e in poche settimane (anche con la sponsorizzazione di parroci e vescovi, come si è visto) hanno passato la soglia, incassando 538.500 firme. Assieme a quelle raccolte col vecchio sistema dei banchetti arrivano quasi al milione, ha annunciato ieri Landini, che giovedì tornerà in Cassazione per depositare anche queste.

 

 

 

E adesso è il turno del referendum per la cittadinanza facile facile, promosso da +Europa, i reduci di Rifondazione comunista, Possibile (il partitino di Pippo Civati), don Luigi Ciotti e altri. Il radicale Riccardo Magi, segretario di +Europa, spiega che l’abrogazione di poche parole contenute in una legge del 1992, come chiesto dal quesito, consegnerebbe subito la cittadinanza italiana a 2,2 milioni di stranieri, e a cascata a cinquecentomila dei loro figli. Più di quanti avrebbero il passaporto con l’introduzione dello ius soli.

Far votare il loro referendum assieme a quelli contro il Jobs act e l’autonomia è indispensabile per avvicinarsi al quorum, visto che chi va ai seggi per uno di solito vota anche gli altri e quello sull’autonomia alzerà la quota dei partecipanti al Sud. Possono riuscirci, però, solo se avranno le firme necessarie entro la fine di questo mese. Ufficialmente hanno iniziato a raccoglierle il 6 settembre, ma in realtà la loro macchina è partita quattro giorni fa.

Mezzo milione di firme in meno di due settimane: l’impresa sarebbe stata impossibile in altri tempi, non in questi. Hanno già superato le 180mila firme (dato di ieri sera), mettendo in cascina il 36% del necessario. Di questo passo ci riusciranno. Fiutata l’opportunità di provare a dare una spallata al governo, trasformando quella domenica di primavera nell’ennesimo anti-Meloni day (in combinata con i soliti 25 aprile e primo maggio), esponenti degli altri partiti d’opposizione sono accorsi a dare man forte. Ieri è stato il turno del senatore renziano Ivan Scalfarotto, prima avevano provveduto Laura Boldrini e i sindaci piddini Roberto Gualtieri, Stefano Lo Russo, Matteo Lepore e Sara Funaro, nonché la stessa Elly Schlein, che ha spiegato agli elettori del Pd la facilità dell’operazione: «Ci vuole davvero un minuto, e una volta che siete sulla piattaforma firmate anche il referendum per l’autonomia differenziata e la legge di iniziativa popolare sul salario minimo».

Probabilità che ai seggi si presenti la metà degli aventi diritto, condizione necessaria affinché il referendum sia valido? Molto bassa: dal 1997 a oggi ci sono stati nove appuntamenti con i quesiti abrogativi, e solo una volta, nel 2011, il quorum fu raggiunto. Ma i promotori sono i primi a saperlo, e infatti non è a questo che servono oggi i referendum. Il loro scopo è monopolizzare il dibattito politico per settimane, tenere chi governa sulla graticola (l’opposizione cavalca i referendum, la maggioranza li subisce, è così da sempre) e consolidare intese politiche attorno alla “piattaforma referendaria”.

Chi cerca il programma del campo largo, o come si chiamerà la coalizione che si opporrà al centrodestra nelle prossime elezioni politiche, è lì, nelle righe di quei quesiti, che lo trova. E se nei prossimi mesi in Liguria, Emilia-Romagna e Umbria le elezioni regionali andranno come spera la sinistra, ci saranno milioni di elettori di quella parte motivati ad andare ai seggi col coltello tra i denti.

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