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Lo spirito anti-nazionale è il marchio di fabbrica della sinistra italiana

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Francesco Carella
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Scriveva alcuni mesi dopo la realizzazione dell’Unità un acuto intellettuale, quale Angelo Camillo De Meis, che nel 1861 «ventidue milioni di persone si trovarono ad essere improvvisamente italiani, mentre per loro l’Italia significava poco o nulla. Si trattò di due popoli opposti che si trovarono a vivere sul medesimo territorio».

A distanza di molti decenni in luogo dei processi di nazionalizzazione, processo che nei secoli scorsi ha segnato il cammino di altri Paesi occidentali definendone cultura e omogeneità, in Italia, viceversa, a partire dai primi anni della formazione della Repubblica il clima generale si aggrava ulteriormente. In quel tempo, infatti, si passa “dall’estraneità” di cui parlava De Meis ad un altro fattore di divisione, forse anche più deleterio.

 

 

Si affermano nel discorso pubblico due differenti visioni del mondo (che caratterizzano diversi schieramenti politici) riconducibili ad altrettante aree di legittimazione politica. L’una appartenente al pensiero liberaldemocratico, mentre l’altra discende direttamente dalla cultura comunista e totalitaria dell’Unione Sovietica fortemente anti-occidentale. Matura in un tale contesto storico lo spirito anti-nazionale della sinistra italiana i cui effetti distorsivi sono giunti fino ai giorni nostri, inquinando non poco la vita politica del Paese. In tal senso, trovano ragione d’essere molti comportamenti della sinistra sia che si muova nel perimetro nazionale che in quello europeo. Valgano due esempi per tutti.

Mentre nelle ultime settimane il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, avanza la candidatura del ministro Raffaele Fitto quale commissario a Bruxelles, Elly Schlein e compagnia accampando scuse circa un improbabile vuoto di potere nella gestione dei fondi del Pnrr “delegittimano” la scelta del Governo italiano inviando di fatto ai vertici europei un segnale teso a fare sapere che in Italia su tale nomina non vi è compattezza.

Del resto, l’imbarazzo e l’incertezza del Pd in queste ore in cui la nomina di Raffaele Fitto quale vicepresidente esecutivo è stata rinviata da Ursula von der Leyen per l’opposizione dei liberali, dei verdi e della sinistra è palmare. Ma la cultura antinazionale della sinistra continua ad estrinsecarsi anche su altri fronti delicati e forieri di laceranti divisioni fra i cittadini.

Ci riferiamo al tema dell’immigrazione irregolare che riguarda in primo luogo il nostro Paese a causa della sua collocazione geografica, ma che coinvolge quasi tutti i Paese europei. In tal senso, i recenti risultati delle elezioni regionali in Germania, dove vi è stata l’affermazione netta dell’AFD, diventando addirittura primo partito in Turingia, rappresentano un segnale inequivocabile circa l’emergenza immigrati nel Vecchio Continente.

Ebbene, rispetto a segnali di allarme di tale portata, la sinistra italiana continua imperterrita a sostenere che il futuro sia italiano che europeo passa dall’immigrazione di massa. Si tratta di una forma mentis costituitasi in seguito a una capillare campagna politico-culturale che ha visto protagonista nella seconda parte del secolo scorso un partito, il Partito comunista italiano. L’obiettivo era quello di delegittimare la democrazia liberale e accreditare, per mezzo di una spudorata falsificazione storica, lo Stato come “mero strumento della borghesia e del capitalismo” e non quale luogo della sovranità nazionale. Ammoniva uno dei più autorevoli pensatori liberali del Novecento, Isaiah Berlin, che «se un Paese cede alla legge della forza e abbandona la forza della legge, il rischio che si corre è la perdita della libertà». La democrazia passa da tali acquisizioni. Il resto è pura demagogia.

 

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