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Ius Scholae, prima costruiamo in classe l'identità nazionale

Gianluigi Paragone
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Puntuale come gli eventi sportivi di grande richiamo, dalle Olimpiadi ai Mondiali, ecco che arriva la questione sul diritto di cittadinanza ai figli di stranieri. Non è una questione solo italiana, sia chiaro: quando le nazionali di calcio francese e tedesca vinsero titoli importanti furono celebrate come l’esempio di due modelli specchio di integrazioni ben riuscite; la realtà però ha costretto a rivedere parecchie affrettate considerazioni. Perché la questione della cittadinanza si attorciglia quando di mezzo ci sono quei pezzi di vita quotidiana che spesso odorano di periferie, di alloggi popolari, di asili, di spazi già compressi da condividere, di servizi scarsi o inefficienti; occorre fare i conti con le famose “classi pollaio” dove gli insegnanti non vogliono andare perché hanno paura.

Ed arriviamo alla proposta di Forza Italia sullo ius scholae, una proposta che piace all’opposizione non solo perché affine ai suoi programmi elettorali ma anche perché su questo tema ci sono sensibilità diverse. Premetto una considerazione: non credo che esista una legge giusta in sé o un modello di integrazione migliore in astratto di un altro. La questione è come sempre la sua messa a terra, la dimensione nella società. Lo ius scholae che ha in testa Forza Italia prevede la concessione della cittadinanza nel caso di compimento di due cicli scolastici o al termine della scuola dell’obbligo. Insomma la scuola come punto di riferimento culturale, come agente attivo di formazione sociale. Bene, ma com’è ridotta la scuola italiana? Che ruolo deve svolgere? L’ho già detto una volta: la scuola serve ancora a costruire una identità nazionale oppure vogliamo progressivamente arrenderci alle logiche di globalizzazione dove le identità sono relative? In poche parole, a scuola si costruisce la Nazione, sì o no?

 

 

 

È questo il dibattito centrale circa la cittadinanza italiana, il resto è dialettica. Se nelle scuole si ha paura ad affermare che esiste una cultura italiana e che questa cultura finalizza una identità, la scuola non può essere il terminale di un bel niente. Aggiungo che se a scuola il corpo insegnanti e i dirigenti sono alla mercé dei ragazzi o dei genitori, e il voto in condotta non fa paura, che cittadinanza vuoi assegnare? Il dibattito sullo ius scholae deve entrare nelle scuole prima che nel parlamento: in quelle scuole dove per i troppi stranieri in classe (di culture profondamente differenti tra loro) la didattica va a rilento; in quelle scuole dove si propone di sospendere le lezioni in coincidenza con il Ramadan o dove ai colloqui con gli insegnanti le madri arabe non spiccicano una parola di italiano.

Sarebbe bene che (anche) i cattolici riaffermassero il senso culturale di riferimento che non significa confinarsi all’ora di religione ma raccontare il senso del sacro che trovi nella pittura, nella scultura, nella letteratura, nella musica. Persino nella geografia dove i nomi dei santi sono i nomi dei Comuni. L’identità nazionale passa dalla scuola. 

 

 

 

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