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Immigrazione, magistrati kamikaze: "Vietato respingere gli irregolari"

Alessandro Gonzato
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L’Italia gli ha salvato la vita in mare, a lui e ad altri 261 migranti - 4 anni fa quand’era appena partito dalla Libia, e le acque italiane erano distanti centinaia di chilometri, con Malta di mezzo. L’Italia, ora, lo ha stabilito il tribunale, dovrà consentirgli anche «l’ingresso immediato», quindi il riconoscimento dello status di profugo. Dunque, se la sentenza creasse un precedente, basterebbe salire su un gommone diretto in Italia - e una volta fermati fare causa - per ottenere il diritto a essere accolti, il che significherebbe porti aperti a tutti e addio “Piano Mattei”, la strategia del governo di creare condizioni di vita miglior nei Paesi di partenza collaborando coi relativi Stati. Protagonista della vicenda un sudanese scappato nel 2003 dopo lo scoppio della guerra in Darfur e ora residente in Libia, dove è stato riportato il 2 luglio 2018 dalla nave mercantile Asso 29, intervenuta su indicazione della Marina militare italiana dopo che la motovedetta libica Zuwarah su cui erano stati imbarcati i naufraghi era stata sorpresa dal maltempo. Secondo il tribunale di Roma, il sudanese, A.O.A., - queste le iniziali - non ha potuto far valere il suo diritto a chiedere protezione «a causa di una condotta illegittima da parte dell’autorità italiana».

 

 

 

La sentenza è del 10 giugno, ma è stata resa pubblica soltanto adesso. Rispettiamo la sentenza, ma condividerla è complicato. Oltre che la Augusta Offshore (compagnia proprietaria della Asso Ventinove, nave in servizio nella zona delle piattaforme di idrocarburi davanti alla Libia) sono stati citati in giudizio Palazzo Chigi e i ministeri della Difesa e dell’Interno, il cui titolare era Matteo Salvini. Era il primo governo Conte. Gli avvocati che rappresentano il sudanese sostengono che «la decisione ribadisce l’illegalità dei respingimenti realizzati tramite le navi mercantili. Stavolta», aggiungono, «il focus non era sulla responsabilità del privato, l’armatore, ma su quella del pubblico, ossia lo Stato».

Subito dopo la sentenza gli avvocati hanno richiesto il visto per permettere al sudanese di raggiungere l’Italia in sicurezza. Il gruppo attivista “Jl Project” è nato proprio dopo il “caso” Asso 29: «Facciamo parte di Mediterranea, una delle Ong accusate di attività illegali», dicono. «Noi siamo per la legalità e lo dimostriamo con questa sentenza che il governo italiano deve rispettare». Per il giudice sussistevano due presupposti, la verosimile fondatezza giuridica della richiesta avanzata e un rischio effettivo della violazione di un diritto soggettivo. Verosimile. Rischio. Gli attivisti di “Jl Project” parlano di «respingimenti segreti». Nessun accenno al fatto che l’Italia, se davvero queste persone erano in difficoltà - e gli attivisti ovviamente lo sostengono - ha immediatamente attivato i soccorsi ed evitato una tragedia, nonostante l’imbarcazione fosse di competenza libica. Ovviamente esulta la Sinistra di Nicola Fratoianni, il paladino dell’immigrazione di massa. L’ultra-ambientalista che gira su un’auto a metano vecchia di vent’anni e che va a fuoco: doppio inquinamento. Doppia coerenza. 

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