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Trieste, migranti stanchi di camminare? Botte a loro, figli storditi coi farmaci

Claudia Osmetti
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C’erano le botte per chi era stanco di camminare e magari non ce la faceva più. C’erano i sonniferi per i bambini, perché non potevano piangere e dovevano restare zitti, era bandito ogni rumore. C’erano le auto che facevano la spola tra Trieste e Pomjan, in Slovenia. E poi c’erano quei boschi, sloveni, croati. Con quelle marce estenuanti, dove scorrevano bottigliette di bevande energetiche per non perdere il passo e che, pure, potevano alterare la percezione; dove chi si fermava veniva malmenato, picchiato; dove non bisognava dire una parola.

La rotta balcanica. L’“altra” rotta, la seconda dopo il Mediterraneo, quella di cui si parla sempre poco e che è altrettanto dolorosa, altrettanto difficile. Altrettanto in mano a gente senza scrupoli. Perché i trafficanti di esseri umani ci sono anche lì: non si chiamano “scafisti” ma “passeur” e il concetto è lo stesso. La brutalità è la medesima, l’inumanità idem. La dda (la direzione distrettuale antimafia) di Trieste, assieme alla polizia di Stato, ha aperto un’inchiesta e ha smantellato una di queste organizzazioni che favoriscono l’immigrazione irregolare: agli arresti sono finiti in tredici, la ramificazione ha toccato anche la Croazia e la Slovenia, il “passaggio” era uguale per tutti. Era che i “passeur” partivano nel pomeriggio da Trieste, direzione: Pomjan. Recuperavano i migranti, i disperati, le donne coi bimbi, gli uomini, quel che trovano, quelli che erano riusciti a trascinarsi sul confine croato, e li ammassavano in un punto di raccolta. Arrivavano col buio, con la notte, l’importante era non attraversare una frontiera presidiata, l’importante era non farsi vedere, attraverso i boschi e le foreste. Ogni persona doveva pagare dai 200 fino a 250 euro. A Pomjan li facevano salire su quelle auto della fortuna e provavano a superare il confine. Guai a fiatare. Guai a lamentarsi.

 

 

Le indagini italiane sono cominciate nel 2022, in circa un anno hanno documentato almeno 32 episodi diversi, ognuno dei quali ha permesso l’introduzione nel nostro Paese di decine di irregolari. Un sistema studiato, organizzato, definito a puntino. Come quello dei barconi che attraccano a Lampedusa. È andato avanti fino a lunedì scorso, quando una vasta operazione delle forze dell’ordine col gagliardetto tricolore sul braccio ha messo fine a questa tratta senza diritti, senza garanzie, senza legalità. I tredici in custodia cautelari sono tutte persone originarie dell’Albania e del Kosovo, ma che vivono a Trieste. Per questo a fermarli è stata la quadra mobile triestina aiutata, per l’occasione, dai colleghi di Bologna, Rimini, Pesaro, Urbino, Treviso e dai reparti di prevenzione del crimine di Padova, Bologna, Reggio Emilia, nonché dalle polizie francese, slovena, kosovara e albanese.

 

 

Una interforze europea per arginare un problema che non può che considerarsi tale, cioè europeo. L’elenco degli indagati è molto più ampio, conta circa una trentina di nominativi, alcuni dei quali sono già finiti in carcere in Slovenia. Per tutti il capo di imputazione principale è quello di associazione a delinquere. Neanche tre giorni fa, a Gorizia, una donna rumena di 40 anni è stata fermata a un posto di blocco per un normale controllo: è saltato fuori che trasportava cinque migranti stipati in un’auto che non era nemmeno sua (l’aveva presa a noleggio in Romania): gli extracomunitari erano del Nepal e pare stessero cercando di arrivare in Francia. Al momento sono stati affidati a una struttura di accoglienza.

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