Immigrazione, sentenza-choc: ecco cosa basta per essere "profugo"
L'immigrato che dimostra di avere la "seria intenzione" di integrarsi in Italia ha diritto ad ottenere un permesso di soggiorno umanitario, che teoricamente spetterebbe a chi fugge dai conflitti , a chi è in patria è vessato, ha subito violenze o è stato perseguitato. È destinata certamente a far discutere la recente pronuncia dalla Corte di Cassazione che ha accolto il ricorso di un cittadino nigeriano che si era precedentemente visto negare il permesso in tribunale. L'uomo, in particolare, aveva portato come prova del suo impegno a integrarsi in Italia il fatto che stava frequentando un corso di lingua italiana mentre aveva già ottenuto un contratto di lavoro a tempo determinato. Due motivi ritenuti più che sufficienti dai giudici di piazza Cavour per la concessione del permesso di soggiorno umanitario.
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DA LONTANO
La sentenza della Cassazione sulle intenzioni di integrazione del migrante è un precedente importante, molto più di una analoga pronuncia positiva nei confronti di chi aveva lasciato il proprio paese asserendo motivi legati al clima, e può modificare in radice le regoli attuali per la concessione di permessi umanitari. I magistrati per motivare la propria decisione sono partiti da lontano, e cioè che occorre tenere presente che anche per gli stessi cittadini italiani è difficile trovare un lavoro con contratto a tempo determinato e dunque più che guardare a risultati concretamente raggiunti, quando si tratta di decidere se consentire a un migrante di rimanere nel nostro Paese, occorre guardare al percorso effettivamente posso in essere dalla persona che richiede il permesso di soggiorno per motivi umanitari. «La seria intenzione di integrazione sociale, desumibile da una pluralità di attività, può rilevare ai fini della protezione umanitaria, quantunque essa non si sia ancora concretizzata in una attività lavorativa a tempo indeterminato, specie se si consideri che tale obiettivo presenta difficoltà non irrilevanti anche per i cittadini del Paese ospitante», si legge nel provvedimento. Il cittadino nigeriano che era ricorso in Cassazione aveva fatto valere a suo favore di svolgere un lavoro anche se a tempo determinato «con prosecuzione ininterrotta dal 2018» e di aver frequentato corsi di italiano come certificato dalla «produzione di certificati scolastici attestanti una buona padronanza della lingua italiana». La sentenza della Cassazione arriva dopo una serie di norme che hanno reso di difficile gestione il fenomeno migratorio, anche per coloro che avevano un lavoro. L'ultimo caso in ordine di tempo riguarda il decreto della renziana Teresa Bellanava, di fatto la classica sanatoria all'italiana. L'emersione non è un diritto della persona immigrata, ma una concessione che passa attraverso un rapporto di lavoro, benché informale, e richiede la disponibilità del datore di lavoro a farsi carico della procedura, assumendo il lavoratore straniero.
L'EX MINISTRA
Il provvedimento della ex ministra dell'Agricoltura, poi, aveva il limite di ammettere solo i lavoratori di alcuni settori, sostanzialmente agricoltura e servizi alle famiglie, scartando tutti gli altri: tra loro, addetti alle pulizie o riders che avevano lavorato per assicurare servizi essenziali durante il Covid e si sono trovati esclusi. Come allora spesso capita in Italia, ecco arrivare la supplenza giudiziaria a rimettere in discussione le regole. Un vulnus determinato da una politica che risulta piuttosto "debole" e che non riesce proprio a mettere un punto fermo su un fenomeno, quello, appunto, dell'immigrazione, ormai endemico.
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