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Souad Sbai, critiche alla sentenza di Perugia: "Una pronuncia offensiva. Ci riporta indietro di dieci anni"

Elisa Calessi
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«È un fallimento totale. Segna dieci passi indietro per quanto riguarda il diritto e la violenza contro le donne. Ed è una sentenza che rischia di diventare un precedente grave. Non mi stupisco che molte donne straniere, quando subiscono maltrattamenti, tornino nel loro Paese. Almeno là hanno amici o parenti che le aiutano». Souad Sbai, presidente della Onlus "Acmid Donna", di origine marocchina, ma da 40 anni in Italia, commenta così la richiesta di archiviazione, presentata da un pm di Perugia, nei confronti di 39enne, di origini marocchine, denunciato dalla moglie 33enne, anche lei marocchina, per maltrattamenti, segregazione (veniva chiusa in casa, a chiave, ogni volta che l'uomo usciva) e altre violenze, tra cui quella di essere costretta a indossare il velo integrale.

«Il rapporto di coppia», si legge nella sentenza, «è stato influenzato da forti influenze religiose-culturali alla quale la donna non sembra avere la forza o la volontà di ribellarsi». È un fatto religioso, dice il magistrato.

«Quale influenza religiosa? Quale cultura? Sono parole che offendono anche il Paese da cui proviene questa donna. In Marocco la giustizia è chiara: se tieni segregata tua moglie, è un reato, vai in prigione. Infatti la denuncia che questa donna ha fatto in Marocco, l'ha vinta. È tornata in Italia perché voleva giustizia anche qui: il marito non le paga nulla, non ha i documenti perché sono sequestrati da lui e la legge italiana non le permette di avere dei duplicati. A dicembre le scade il permesso soggiorno. Come fa? È una sentenza discriminatoria. Ha denunciato il sequestro, la violenza, la segregazione. E la risposta è stata questa: nulla. Allora non ci lamentiamo quando accade quello che è accaduto a Saman (la 18enne pakistana uccisa dallo zio, n.d.r.). Anche lei era tornata a casa per avere i documenti. Aspettiamo il morto? A quel punto mi chiedo se vale la pena denunciare».

Le leggo ancora cosa ha scritto il pm: «La condotta di costringerla a tenere il velo integrale rientra, pur non condivisibile in ottica occidentale, nel quadro culturale dei soggetti interessati».

«Sono parole che mi offendono. E offendono anche la nostra cultura di origine. Sono una minoranza i musulmani che indossano il burqa. Io non lo porto. Se domani quell'uomo lapida sua moglie in una piazza, cosa diciamo? Fa parte della sua cultura? Dobbiamo decidere quale legge seguire».

 

 

 

Ecco, il punto è questo. Qual è il confine tra il rispetto di culture diverse da quella italiana e l'esistenza di diritti universali?

«Io so che in Marocco si seguono i diritti universali. Se qualcuno commette una violenza, paga».

 

 

Secondo lei perché in Italia, dove tante leggi tutelano le donne, quando una donna straniera è oggetto di violenza c'è una strana esitazione, se non una comprensione nei confronti di chi commette violenza?

«Perché c'è il politicamente corretto. Si parla di rispetto delle culture. Ma quali culture? Se una persona non rispetta la legge italiana, deve essere punita. Punto. Io ho scelto di vivere qui e seguo le regole di questo Paese. Se un magistrato mi giudica sulla base di regole che riguardano altre culture, non va bene. E comunque in Marocco, se commetti violenza nei confronti di tua moglie, sei punito. Di cosa parliamo?».

Il caso di questa donna è isolato o ce ne sono altri?

«Purtroppo i casi sono tanti. Quasi il 30% delle bambine straniere, dal 2017, hanno abbandonato la scuola. Le donne straniere, adulte o bambine, non hanno nessun diritto. Se alzi la testa, muori. Ma sta crescendo, tra le donne straniere, una consapevolezza dei propri diritti. Però hanno bisogno di sentenze chiare. Altrimenti preferiscono tornare nel loro Paese».

Addirittura?

«Sì. Almeno lì hanno una rete parentale o amicale che le aiuta. Qui non hanno i soldi nemmeno per fare un processo».

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