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Serie A, la rivoluzione: Allegri e Mourinho fatti fuori dal "senza nome"

Claudio Savelli
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Facciamo le rivoluzioni senza nemmeno accorgerci. Ora, sugli schermi della serie A, sta andando in onda quella degli allenatori senza nome. Tecnici che vengono dal basso e sfruttano l’occasione di una grande, trasformandola subito in una squadra grandiosa.

Non sono più gli esperimenti esotici di un tempo, i Giampaolo presi dal Milan nel momento peggiore che si bruciano, incapaci di districarsi nel caos e anche di modellare il loro credo in relazione al contesto. Sono esperimenti con un senso. 

Ecco il primo motivo per cui questi nuovi mister funzionano: figli del calcio contemporaneo, studiano, si appassionano e si aggiornano senza pensare di averlo inventato loro. Sono consapevoli che il calcio d’oggi è fluido, che non si impone più un’idea sulla squadra ma che si modella nel tempo. Non hanno età, questi nuovi allenatori flessibili, capaci di non sentire la pressione della grande occasione. Sono Marco Baroni di anni 61 ma sono anche Raffaele Palladino di anni 40.

È terminata l’era dei supernomi, dei mister presi perché garanzia di successo istantaneo. Il motivo? Del successo istantaneo non importa più nulla a nessuno. È un rischio imprenditoriale troppo grande: spendi per comporre uno squadrone, strapaghi il tecnico sulla fiducia e, se fallisci, ti rimane un buco a bilancio che compromette anni di competitività. Ora tutti vogliono una crescita organica e graduale. Vogliono allenatori che maturano con la squadra, non già più grandi della stessa.

Per questo è finita l’era degli Allegri e dei Mourinho. Le megalomanie sono fuori dal tempo. Non sono solo le società borghesi ad essersi accorti di quale strada percorre il calcio ma anche le nobili come la Juve, che in estate ha scelto Thiago Motta, un grande calciatore che però, in panchina, ha guidato Genoa, Spezia e Bologna, con tutto il rispetto.

 

VECCHIE GLORIE
È terminata anche l’era delle vecchie glorie che venivano messe in panchina quando non si sapeva più che pesci pigliare, nell’idea assurda che tutte diventassero Guardiola. Di tentativi ce ne sono stati tantissimi - Seedorf al Milan, Pirlo alla Juve, in ultimo De Rossi alla Roma - ma nessuno è andato a buon fine. Motivi diversi, tesi univoca: si è profeti in patria una volta, difficilmente due.

Solo Conte ci è riuscito ma era un’altra epoca, quella che abbiamo superato. Così conviene ingaggiare un Inzaghi dalla Lazio se sei l’Inter, un Motta che ha giocato nell’Inter se sei la Juve, cancellando il peso della storia e del sentimento verso il club d’appartenenza. Meglio che si faccia nel tempo, questo sentimento, piuttosto che ci sia in partenza.

I dirigenti e i presidenti del nostro calcio hanno imparato a ponderare il lavoro dei mister. Baroni ha fatto un miracolo a Verona, così come Palladino lo ha fatto al Monza: vale uno scudetto. E allora hanno avuto la curiosità di scoprire se, a livello più alto, questi mister potessero ripetersi. Così ora ci ritroviamo con una Lazio e una Fiorentina competitive in Italia e in Europa, dove siamo di nuovo al top del ranking: 12.109 punti dietro alla sola Inghilterra (13.642) e davanti a Portogallo (11.775) e Spagna (11.428), con l’ultimo turno di Conference la prossima settimana che assegnerà i primi bonus grazie alla Fiorentina. Dovessero le nostre continuare così, avremmo di nuovo cinque squadre in Champions League il prossimo anno. E ce le meritiamo.

 

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