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Dino Zoff stronca Lele Adani e gli urlatori: "Un tempo le parole avevano un valore"

Leonardo Iannacci
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Chiudiamo gli occhi e proviamo a immaginare l’11 luglio 1982, il fischio finale di Italia-Germania che diede agli azzurri il terzo mondiale della storia e Nando Martellini sentenziò, con maestria e pathos: «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!». Un triplice inno alla nostra gioventù e un esempio di buona telecronaca nel momento più esaltante che il Paese attendeva da 44 anni. Dal 1938. Sempre a occhi chiusi, immaginiamolo oggi quell’attimo, con Lele Adani al posto di Martellini. A tal proposito chiediamo lumi a un monumento della nostra storia calcistica: Dino Zoff. Un campione che è stato raccontato, quando giocava, come un eroe omerico ma senza lazzi nè urla. Con il dovuto garbo che si deve avere quando si entra in punta di piedi nei salotti degli italiani attraverso la Rai, la televisione di stato.

Zoff, a 82 anni guarda ancora il calcio in televisione?
«Sì. Non sono fra quelli che snobbano questo sport. Fa parte della mia vita e in televisione esamino ancora volentieri quello che succede».

Secondo lei come viene raccontato oggi il calcio?
«Devo ammettere che guardo poco quello sulla Rai perché sulle reti di stato c’è soltanto la nazionale. Il resto è materia delle pay-tv».

E Lele Adani come seconda voce di Rimedio, su Rai1? Cosa ne pensa?
«Io provengo da un’altra era geologica e le mie partite sono state raccontate dapprima da Niccolò Carosio, poi da Martellini e infine dal mio amico Bruno Pizzul. Diciamo che erano altri stil di narrazione e fermiamoci qui».

Meglio di oggi?
«Non posso essere in linea con quello che ascolto in certi momenti. Ma, ripeto, io sono anziano per tutte le novità che vengono proposte oggi, è la legge della vita. Questo è il mondo dei giovani ma certi valori restano sacri, per me. Il primo è quello dell’educazione e della serietà».

Gli urlatori oggi imperano: siamo negli anni dell’“adanismo”?
«Siamo nelle stagioni di quella che definirei un’inflazione eccessiva delle parole che trova conferma anche nei racconti calcistici televisivi».

Adani se l’è presa per le critiche che Libero gli ha rivolto.
«Non entro nel merito. Certo che l’urlo lo dovrebbe fare un tifoso allo stadio e non chi racconta le partite in televisione».

Se li immagina Pizzul o Martellini usare certi toni?
«In realtà, ahinoi, non dobbiamo meravigliarci se Bruno e Nando vengono ricordati come narratori antichi. Certe telecronache di oggi sono la vetrina dell’esasperazione mediatica e di un certo tipo di linguaggio».

Cos’altro non le piace dei racconti della nazionale?
«Certe espressioni tenorili possono sembrare esagerate ma quello che non capisco sono i toni accesi in partite che non sono certo finali mondiali o europee per le quali la posta in palio è altissima».

Faccio l’avvocato del diavolo: lei parla così perché appartiene a un’altra generazione che non era abituata a linguaggi e toni simili. È così?
«Può essere. Ma questo non significa che io debba essere in linea con quello che viene detto da Adani o da chi racconta il calcio in quel modo, pur riconoscendo che è figlio dei tempi».

Un telecronista o una seconda voce non dovrebbe anche svolgere una funzione divulgativa se lavora per un’emittente di stato?
«Qui entriamo in un discorso delicato. Dovrebbe essere così ma il mondo va avanti. E, purtroppo, anche l’impostazione di chi racconta lo sport».

Lei, Zoff, risente ogni tanto le telecronache di Martellini e Pizzul? Di come esaltavano certe sue parate?
«Poco, non amo rivangare il passato se non in alcune celebrazioni. Lei sta parlando con una persona che ha sempre fatto del silenzio e delle poche parole un modo di vivere. Ma le poche parole dette avevano per me sempre un valore particolare».

Mettersi in mostra e farsi notare non è mai stato un suo obiettivo, vero?
«Nel 2000 fui invitato a Vienna per una celebrazione che voleva premiare gli atleti del secolo in ogni disciplina. Mi trovai fra Michael Jordan e la Comaneci, Mark Spitz e persino Cassius Clay che arrivò, pur malato, dagli Stati Uniti. Fu una serata incredibile ma non l’ho mai raccontata, nè ho postato foto anche perché i social non so neppure cosa siano. Mai urlato nulla, per tornare alla sua domanda. Ho tenuto tutto per me».

Non la vediamo nella veste di promotore del suo mito...
«Le racconto un altro aneddoto: l’11 luglio del 1982 tutti gli azzurri festeggiavano la coppa del mondo appena vinta, in hotel. Io e Gaetano (Scirea ndr) ci ritirammo in una stanzetta per fumarci una sigaretta e berci un bicchiere di vino, mi gustai in quel modo il momento che altri avrebbero sbandierato ai quattro venti, figuriamoci oggi con l’invasione dei social».

Cosa suggerirebbe a chi segue la filosofia dell’“adanismo”?
«Poche parole, molti fatti. È sempre stata la mia filosofia. Quando ero fra i pali di una porta da ragazzino, in Friuli e anche al Santiago Bernabeu. E non possono certo cambiarla oggi che conto più del doppio degli anni che avevo quando Martellini avvisò, con eleganza e giusta enfasi, che avevamo vinto la coppa del mondo di calcio».

Fu il giorno calcistico più bello della sua vita?
«La felicità dura un attimo, mi creda».

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