Dan Peterson, il coach smonta la sinistra: "Vi spiego perché Trump è numero uno"
Daniel Lowell Peterson, nato 88 anni fa a Evanston, Illinois, sotto il segno del Capricorno, non è soltanto un grande ex allenatore di basket, un commentatore televisivo, un genio del marketing pubblicitario, un bravo scrittore, un simpatico attore caratterista. È laureato in storia americana e ci può spiegare bene, da osservatore attento, cosa sta succedendo in questi giorno oltreoceano dopo il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump.
Peterson, come si spiega il fatto che Trump non ha solo vinto ma ha stravinto?
«Perché ha lavorato sodo e bene in campagna elettorale. Meglio della Harris. Dopo la sconfitta del 2020, ha analizzato gli sbagli di allora e non li ha più ripetuti».
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Il segreto del suo trionfo a cosa si deve?
«Al lavoro pazzesco della sua organizzazione, alle migliaia di volontari e a qualche suo colpo di genio».
Per esempio?
«Quando Biden ha provato a dire che la campagna elettorale di Trump era un rifiuto, lui si è vestito da uomo della spazzatura e si è fatto fotografare su un camion. E persino gli spazzini l’hanno votato!».
Le cause e i procedimenti giudiziari nei suoi confronti hanno ottenuto l’esito opposto, inaspettato...
«È diventato quasi un martire e a molti americani è apparso come una vittima designata del sistema giudiziario. Il resto l’hanno fatto eccellenti avvocati smontando molte accuse».
Lei ha votato? E, se ce lo può dire, per chi?
«Non sono un politico, sono un uomo di sport e un osservatore non di parte come voi giornalisti. Ho votato per posta ma la mia scelta resta un segreto. Posso solo dire che la mia famiglia nell’Illinois era di tradizione democratica ma era davvero un altro partito democratico, negli anni Trenta».
È accaduto di rado che un presidente venisse rieletto dopo essere stato sconfitto.
«Incredibile davvero. L’esito che pareva incerto sino all’ultimo con i due candidati, entrambi sul filo del rasoio, invece è finito come abbiamo visto. Sono state le elezioni più pazze della storia».
Ma un divario così netto se lo aspettava?
«Assolutamente no. È stata un partita dominata da Trump che non ha vinto per un canestro ma di 20 punti!»
Le prime cose che Trump deve fare?
«Ricompattare il Paese. Gli Stati Uniti sono profondamente spaccati, sotto tutti i punti di vista. Ora non sono più gli United States of America ma i Divided States of America. Trump ha promesso di far terminare le guerre in Ucraina e in Medio Oriente. Ci riuscirà?».
La sua leadership come dovrà essere confermata?
«Adesso i Repubblicani hanno tutto: Casa Bianca, Senato, Congresso e Corte Suprema. Ma da coach ho sempre voluto giocatori che fossero veri leader come Meneghin o D’Antoni. Le decisioni è giusto che arrivino dall’alto ma non basta Trump, gli serviranno uomini super in campo, soprattutto nei momenti di difficoltà».
Gli Stati dell’Unione che l’hanno sorpresa di più nella scelta finale?
«La Pennsylvania è stata la fotografia di queste elezioni: lì tutti si aspettavano la vittoria dei Dem».
Quale sarà il futuro dei Democratici usciti dalle elezioni con la coda fra le gambe?
«Ora dovranno ricomporre i cocci. Kamala Harris ha sbagliato molte scelte, per esempio non ha mai affrontato una conferenza stampa seria. Quasi avesse paura delle domande dei giornalisti e, quindi, del giudizio del Paese che l’ha sentita distaccata. Trump, invece, c’era sempre con il suo ciuffo, da abile uomo di comunicazione».
La costa dell’Ovest si era schierata in massa per Kamala Harris.
«Amici dall’America mi hanno raccontato che i vip di Hollywood sono rimasti gelati. E che in California stanno massacrando George Clooney che si era vestito da ultrà della Harris».
Kamala ha detto che la colpa è stata di Biden perché si è ritirato troppo tardi. È così?
«Sempre dall’America mi raccontano che in questi giorni Biden sta stappando una bottiglia di champagne. Sua moglie, ve lo ricordo, è andata a votare con un vestito rosso, il colore dei Repubblicani».
Elon Musk, il tycoon di Tesla e dei missili per Marte, ha avuto un ruolo fondamentale. Dove ha colto nel segno?
«Il problema dell’immigrazione selvaggia e della sicurezza hanno avuto il loro peso. Musk ha messo la sicurezza in primo piano e ha detto una frase che ha colpito l’America: scegliete come se la vostra vita dipendesse da questo voto».
Cos’altro l’ha colpita nella vittoria di Trump?
«Il fatto che ha portato dalla sua parte i neri, i latinoamericani e persino molti musulmani. Non me lo sarei mai aspettato. In questo è stato un genio perché si è presentato loro come un fratello rassicurante».
Dan, lei quanto si sente ancora americano?
«Ho vissuto più anni da voi che negli Stati Uniti. E parlo ormai solo la vostra lingua qui a Milano. Ma i ricordi della giovinezza a Evanston sono nitidi e li racchiudo nel blog dove racconto la “mia” America. Per questo ho assistito all’elezione di Trump con la curiosità dovuta».
Lei ha avuto una vita romanzesca, dopo gli anni nel suo Paese, ancora abbastanza giovane finì ad allenare in Cile. Come mai?
«Fu un’esperienza incredibile. Vivendo da solo, imparando lingua e costumi diversi, diventai uomo in tutto».
Vero che scampò al golpe di Pinochet per pochi giorni?
«Nel 1973 allenavo la nazionale cilena, ma a Santiago tirava una brutta aria. Alla fine di agosto presi un aereo per Bologna perché il proprietario della Virtus, Gigi Porelli, al quale ho dedicato il mio ultimo libro, mi aveva fatto firmare un bel contratto. Ignaro di quello che sarebbe successo in Cile, partii e l’11 settembre ci fu il golpe nel quale fecero fuori Salvador Allende. Il mio ufficio di Santiago era a 80 metri dal suo palazzo che fu assalito. Vidi tutto quell’inferno dalla televisone. Ma ormai ero in Italia».
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