Con Eriksson se ne va anche il calcio dei grandi presidenti e dei grandi sogni
«Non dispiacetevi, sorridete. Grazie di tutto, è stato fantastico». Certe frasi fanno il giro del mondo, corrono come un pallone in discesa, si alzano come quei bei cori che gli stadi sanno ancora fare. Certe parole tengono strette le persone come in un torello d’allenamento. Così dietro il ricordo di Sven Goran Eriksson riaffiora l’eco di quei campionati dove la liturgia reggeva nonostante tutto.
Le leggi d’un fiato le testimonianze di Nesta e Popeye Lombardo, Veron e Mancini; le ascolti in apnea le reminiscenze di chi era stato guidato in panchina da quello svedese arrivato dopo Liedholm a Roma sponda giallorossa (fu il vecchio Nils a raccomandarlo a Dino Viola) prima di costruire la Lazio dei miracoli e « dei campioni. In mezzo, la Fiorentina di Baggio e la Samp dei ragazzi terribili. Mette i brividi riavvolgere il nastro di quegli anni. Purtroppo lo facemmo anche quando ci lasciarono Mihajlovic, Vialli e prima ancora Maradona.
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Piangiamo loro e piangiamo un po’ quel pallone che non riusciamo più a tenere in mano, ipertecnologico e perfetto, tirato a lucido dai nuovi padroni che chissà se lo amano come lo seppero amare i Paolo Mantovani a Genova, i Viola e i Sensi a Roma, gli Agnelli a Torino, ma anche Berlusconi e Moratti per le due squadre milanesi; i “piccoli” Scibilia, Rozzi e Sibilia tra Pescara, Ascoli e Avellino; Pontello e Zanussi tra Firenze e Udine. E infine Tanzi e Cragnotti, patron di Parma e Lazio.
Certo, la finanza c’era anche allora e il calcio serviva come vetrina, ma rispetto a oggi quella finanza pur spericolata come ci insegnano i casi legati a Tanzi e Cragnotti ma anche alla stessa operazione che portò Zico a Udine - era golosa di calcio, era finanche morbosa nel suo attaccamento ai giocatori, agli allenatori. Il calcio veniva prima di loro. Era un calcio liturgico, rigoroso, in grado di proteggersi dalle ombre diaboliche che ci sono sempre state, calcio scommesse incluso. Prima il calcio, poi tutti gli altri attori. Era un calcio fatto di province che se la potevano giocare grazie a presidenti improbabili e furbacchioni, tuttavia capaci di saldare socialmente ed economicamente il pallone alla città; era un calcio di imprenditori con le mani callose, imprenditori veri.
Sono stati loro l’ultimo bastione di una stagione dove si andava in provincia a cercare gioiellini da lanciare, e non in giro per il mondo perché costa di meno. Infine era un calcio di sponsor figli dell’economia del territorio: Zanussi, Iveco, Ariston, Pop84, fratelli Dieci costruzioni, latte Soresina, Gis gelati. Cirio. Ecco, nel ricordare Eriksson diventa inevitabile sfogliare un album nostalgico, generazionale. E dirgli che ha ragione: sorridiamo, in fin dei conti ci vuol poco per tornare ragazzini.
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