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Parigi 2024, il gesto di Djokovic che nessuno ha notato: il segno della Croce

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Marco Patricelli
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«Se caschi in ginocchio, / ti levi; / se piombi riverso, e ti levi; / se prono, e ti levi a lottare». Chissà se Novak Djokovic conosce l’“Ode alla nazione serba” di Gabriele d’Annunzio, e chissà se sa che i suoi compatrioti nel 1915 vennero salvati dall’annientamento con un gigantesco ponte navale dalla Regia Marina per continuare a combattere e vincere contro gli austro-ungarici.

Il vecchio leone Djokovic ci ha messo cuore, carattere, classe, per sbarrare la via del podio più alto dell’olimpiade parigina al rivale spagnolo Carlos Alcaraz. Si è levato dannunzianamente senza mai cadere, poi ha levato in alto in mondovisione il suo speciale ringraziamento: il segno della croce. Tutto piomba dall’alto nell’edizione dei Giochi più pagana dei tempi moderni, in cui i mercanti del tempio della musica di consumo hanno cacciato le Gymopedies di Eric Satie, e con i baccanali dalle tinte arcobaleno sostituite alla fede e all’arte, ai Vangeli e a Leonardo. A èpater les bourgeois ci ha pensato stavolta un serbo trentasettenne, opposto a un talento che potrebbe essere suo figlio con un errore di gioventù (Alcaraz di anni ne ha 21), con un gesto naturale, fuori copione nelle macroniadi 2024 dell’appiattimento inclusivo.

 

 

Un rivoluzionario segno della croce, un Te Deum politicamente non corretto, per quell’oro che mancava nella bacheca straordinaria di un genio puro della racchetta. Per sé e per il suo Paese, quello bistrattato dalla storia, sempre dentro ma sempre ai margini, impopolare e avversato dai tempi della guerra in Jugoslavia, guardato con sospetto per la sua sintonia plurisecolare con la Russia oggi non di moda. Djokovic l’ha fatto nel solo modo in cui poteva, con quel nerbo che è scritto nel DNA della sua nazione. L’oro olimpico porta davvero nell’Olimpo, dove siedono gli dèi e le dee del tennis che hanno deliziato i mortali della Terra: Andre Agassi, Rafael Nadal, Steffi Graf e Serena Williams. Ora anche lui. Uno scontro tra titani, quello con Rafal, che va oltre l’asettico responso statistico 7-6 7-6 a otto giri di lancetta lunga dell’orologio per scandire tre ore di un match intenso e vibrante. L’esperienza a bilanciare l’energia giovanile, la classe pura da centellinare, il mordente per arrivare caparbiamente al risultato passando dallo spettacolo. Palla su palla, mazzata su mazzata, liftato su liftato. Autorità e autorevolezza di un campione che non si è mai piegato al politicamente corretto, che non ha fatto mai nulla per risultare simpatico. Solo mostruosamente fuoriclasse, e non conta altro. Cassius Clay si definiva «il più forte» perché lo era, Pelè era «O’ Rey» perché lo sport non conosce la democrazia livellatrice in basso: l’eroe può anche essere generoso con l’avversario ma sul campo è un nemico da atterrare o da sconfiggere. La stretta di mano, il fair play, sono altra cosa, come lo spirito olimpico che a Parigi è andato spesso a farsi benedire, tra arbitraggi da partita parrocchiale e gli odii permutati dalla situazione internazionale rinfocolati dall’agone sportivo. Djokovic è il genio slavo e la rozzezza slava, dentro e fuori, caparbio e testardo, controcorrente sui vaccini anti Covid e contestatore sugli stili di alimentazione, mai un ammiccamento, mai un gesto per piacere, mai uno di quei sorrisi ruffiani che ti conquistano e ti rendono empatico se non proprio simpatico. Prendere o lasciare. Lui ha preso la vetta olimpica e tutto il resto: 10 Australian Open, 3 Roland Garros, 7 Wimbledon, 4 US Open, 7 ATP Finals, 428 settimane da record come numero uno al mondo.


Persino la Coppa Davis in bacheca si sente insalatiera di lusso quando viene sgranato un tale palmarès. Roccioso nella fluidità, ancorato all’identità nel caleidoscopio gender, fa quel che vuole e come sa fare. A un tennista di livello, d’altronde, si chiede di giocare a tennis e di farlo come nessun altro. Viene da Belgrado, la sua racchetta è magistrale e il suo curriculum internazionale parla tutte le lingue del mondo più e meglio di qualsiasi accademico. Duro e tagliente come un serbo scolpito nelle sue montagne. Ha vinto e rivinto tutto disegnando nell’aria fendenti e parabole, passanti e smash, perché numero uno non si diventa per caso. Forse nella sua carriera c’è il tocco della grazia divina, e forse proprio per questo si è fatto il segno della croce: il dio del tennis che si inginocchia per ridiventare umano.

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