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Atalanta, Roberto Samaden: "Il calcio non è più una priorità"

Pasquale Guarro
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Si dice che il nostro non sia più un paese per giovani, Ma c’è ancora chi offre loro ascolto e comprensione, mettendogli a disposizione strumenti utili al percorso di crescita personale. Questa è la missione dell’Atalanta e di Roberto Samaden, direttore del settore giovanile nerazzurro, riconosciuto a livello mondiale come esempio di struttura che forma e valorizza il talento dei propri atleti. Cosa c’è dietro il modello Atalanta? Come mai Bergamo continua a essere un’isola felice in un contesto, come quello italiano, in cui si fa estremamente fatica a formare nuovi calciatori? Cosa si può fare per cambiare le cose? Abbiamo affrontato questi argomenti proprio con Samaden, che da 40 anni si dedica ai giovani e dal 2019 è il responsabile della sezione sviluppo del calcio giovanile per la FIGC. Dopo 33 anni di Inter, Samaden è ripartito da Bergamo e dall’Atalanta. 

Affronteremo ampiamente il tema giovani, ma a luglio ha compiuto un anno di Atalanta e come prima cosa le chiedo di tracciare un primo bilancio. 
“Posso dire che il bilancio è positivo, innanzitutto perché non avendo mai cambiato ero un po’ preoccupato di come avrei affrontato una nuova realtà”.

 

 

A un certo punto ha avvertito la paura del cambiamento?
“Con l’Inter ho vissuto un’esperienza strepitosa per tanti anni, ripartire da una nuova avventura significava interfacciarmi con qualcosa di diverso. Mi hanno accolto benissimo e ho trovato un ambiente in cui c’è grande cultura del lavoro e abitudine a dedicarsi ai giovani. Ma soprattutto ho trovato una proprietà straordinariamente presente, spinta dall’entusiasmo di investire e valorizzare il lavoro del settore giovanile. Mi hanno facilitato ogni compito, mettendomi a disposizione tutti gli strumenti affinché potessi iniziare a portare avanti un progetto anche mio. Ho trovato grande disponibilità da parte di tutti e da quest’anno posso iniziare veramente a gestire il settore giovanile dell’Atalanta, dopo un anno di ascolto e osservazione, che sono assolutamente necessari per poter gestire una macchina complessa e di grandissimo valore”.

Dopo 33 anni di Inter, ci dica cosa l’ha colpita arrivando all’Atalanta. 
“La costante presenza e l’attenzione della proprietà verso l’intero settore giovanile e tutti quelli che ne fanno parte. Siamo considerati allo stesso livello della prima squadra e, cosa fondamentale, club e tifosi non vedono l’ora che un ragazzo possa esordire. All’Atalanta il settore giovanile è qualcosa di straordinariamente importante e io stesso posso godere della medesima considerazione del direttore della prima squadra, Tony D’Amico e del direttore dell’Under 23, Fabio Gatti”.

C’è altro?
Sì, l’altra cosa che già si percepiva dall’esterno ma che mi ha colpito di più potendola osservare da vicino, è la grandissima attenzione e la naturale predisposizione che ha il mister Gasperini verso i nostri giovani, sia nel tenerli d'occhio che nel coinvolgerli, facendoli allenare con la prima squadra. Lavoriamo tutti insieme nello stesso centro sportivo, che a breve sarà ulteriormente ampliato, dove capita spesso di trovare Gasperini a bordo campo che segue un allenamento o una partita delle squadre giovanili”. 

Siamo arrivati ai giovani, si dice che in Italia fatichino a sbocciare. Avete considerato l’idea che il problema potrebbe essere di natura culturale e che questo calcio abbia un po’ stancato i ragazzi, riducendo il bacino d’utenza da cui attingere?
“È assolutamente possibile, l’impoverimento del nostro calcio giovanile è notevole e questa non è una lacuna che dobbiamo scoprire oggi ma che purtroppo affonda le radici nel recente passato. È altrettanto vero che la causa del deficit non può essere soltanto una”. 

Quali e quante altre ne riconosce?

“Attualmente arriva più concorrenza, mentre anni fa il calcio era quasi l’unica possibilità che aveva un ragazzo di poter fare sport. Oggi ci sono altre opportunità e in più ci sono tantissimi interessi che catturano i nostri giovani, rischiando di danneggiarli. Se un ragazzo pratica uno sport alternativo al calcio, fa comunque il proprio bene e quello delle sue capacità motorie, ma il problema sorge quando le alternative allo sport sono legate a uno strumento che non si lancia, non si tira e non si acchiappa, ma che stringendolo tra le mani consente loro di vivere in maniera virtuale quelle che in passato erano esperienze quotidiane legate al movimento”. 

Questo rientra nell’aspetto culturale cui facevamo riferimento prima. 
“Senza dubbio, ma anche nell’incapacità del nostro paese di reagire e di rispondere al fenomeno”.

Come si può arginare un fenomeno di questa portata?
“La responsabilità in questo caso va attribuita agli adulti, perché non basta dire che le cose sono cambiate, che adesso va così o che non è più come prima. Bisogna fare in modo di attivare delle azioni che consentano ai ragazzi di svolgere ugualmente tanta attività sportiva”. 

Per esempio?
“Per esempio lo si potrebbe fare a scuola, fornendo le strutture adeguate. Così come i comuni dovrebbero attrezzarsi con molti più spazi per praticare il gioco libero, cosa che nelle grandi città non avviene quasi più. Come vede abbiamo già toccato tanti punti e sono tutte problematiche concrete, che si aggiungono a quella che è una minore predisposizione nel giocare a calcio. Io svilupperei un progetto di Calcio a 5 nelle scuole e farei in modo che i ragazzi possano giocare tanto anche in altri ambienti”. 

Avete qualcosa di pronto a livello federale?
“Direi che adesso c’è l’assoluta necessità di dover far fronte a quello che è un problema evidente. Il progetto c’è, si tratta di unire tutte le componenti e mettere al centro l’interesse comune, che è quello che riguarda la crescita dei giovani. Al di là dei ruoli, delle componenti e degli aspetti politici che, come caratteristica anche di paese, spesso prevalgono rispetto a quello che invece si dovrebbe fare nell’interesse dei ragazzi”. 

Obiezione: perché le nostre nazionali Under vincono? Come mai i giovani forti diventano adulti scarsi?
“Bisogna evidenziare e sottolineare che con le nazionali giovanili abbiamo raggiunto grandi risultati grazie a un lavoro partito nel 2010 con Arrigo Sacchi, dove si sono concentrati progetti e investimenti, sotto l’abile regia di Maurizio Viscidi. Abbiamo raggiunto questi risultati proprio grazie al grandissimo lavoro del club Italia e non certo perché in quelle nazionali abbiamo i migliori giocatori. È stato un meraviglioso lavoro di squadra portato avanti negli anni, un lavoro di selezione e formazione. Se poi altre nazioni hanno più calciatori pronti rispetto a noi, quando raggiungono il professionismo, diventa evidente che il motivo di quei traguardi che abbiamo raggiunto va attribuito a un certo tipo di lavoro e non al fatto che abbiamo i migliori giocatori. Senza considerare, per esempio, che alcuni Under 17 e Under 19 della Spagna vincono gli Europei giocando stabilmente in Nazionale A. Questo da noi non accade”. 


Ci spiega quali sono le attuali difficoltà che incontra oggi uno scout?
“Ci sono parametri diversi tra scout che osservano per la prima squadra e quelli che invece operano per il settore giovanile: i primi si trovano di fronte un calciatore fatto e finito, i secondi, invece, devono scegliere anche valutando un fattore difficilmente oggettivabile, quello che riguarda i margini di crescita”. 

È questo ciò che rende uno scout insostituibile?
“Non c’è algoritmo e non esiste dato che possa offrire riscontri sul parametro della possibile crescita ed è per questo che niente e nessuno potrà mai sostituire l’occhio e l’esperienza, che rimangono alla base di un buon settore giovanile. La capacità nel valutare questi aspetti fanno la differenza. L’Inter ha avuto Pierluigi Casiraghi, l’Atalanta ha avuto la fortuna di poter contare su Raffaello Bonifacio, che per anni ha scelto ragazzini senza nessun tipo di dato ma semplicemente facendo affidamento sulle capacità acquisite nel guardare assiduamente e continuamente partite. La cosa più difficile è proprio questa, osservare un ragazzo che oggi non è pronto ma allo stesso tempo capire immediatamente che presto lo diventerà”. 

Cosa chiede l’Atalanta ai propri scout?
“Ciò che l’Atalanta mi ha chiesto e ciò che torneremo ad avere, sarà la cura maniacale del nostro territorio. In passato ci si è orientati molto sul mercato straniero, anche a livello giovanile. Adesso vogliamo tornare ad avere una grandissima attenzione verso un territorio che è produttivo, qui crescono ottimi frutti. Chiaramente completeremo la ricerca con altri ragazzi provenienti dal resto dell’Italia e d’Europa”. 

Arriveranno altri input dalla sua gestione?
“Chiederò con insistenza che il focus si sposti sull’aspetto tecnico e che non ci si concentri troppo su quello fisico. Non vogliamo che la fisicità di un atleta venga messa al primo posto nella piramide dei nostri criteri valutativi. È necessario tornare al modello Favini, da adesso in avanti l’Atalanta sceglierà principalmente calciatori per la loro capacità di giocare a calcio, di leggere e interpretare il gioco e per le capacità tecniche. Poi, se saremo fortunati e cresceranno anche dal punto di vista fisico, ancora meglio”. 

È un po’ un’ammissione di colpe?
“Ogni epoca ha avuto parametri diversi ma quello che non è mai cambiato è che se sai giocare a calcio, sai farlo in ogni momento storico. Oggi viviamo un calcio più fisico, intenso e veloce, quindi, oltre a saper giocare, rientrano nelle esigenze dell’atleta anche altri aspetti, visto che l’intensità occorre saperla reggere. Ma alla base deve sempre esserci il saper giocare. Meglio prendere un calciatore bravo e sperare che si strutturi fisicamente, che prendere un calciatore già pronto dal punto di vista fisico, cui però devi insegnare il gioco del calcio. Da adesso in avanti andremo alla ricerca di queste caratteristiche e voglio nuovamente nominare Favini, lui diceva che l’elemento distintivo per la scelta di un calciatore è il primo controllo”.

Parlavamo di occhio ed esperienza, è arrivato un assist dall’Inter che ha lasciato libero Manighetti?
“All’Atalanta avevamo e abbiamo una figura come quella di Roberto Marta, che è uno dei migliori capi scout che ci sono in Italia e non solo. Quando lui è passato all’Unger 23, ci siamo guardati intorno e sicuramente il fatto che a Manighetti non sia stato rinnovato il contratto, e che di conseguenza fosse disponibile, è stata per noi un’opportunità. Come quando riesci a ingaggiare un calciatore in scadenza di contratto: abbiamo preso un top player e ne avevamo già un altro. Mettendoli insieme riusciremo a creare un sistema di grande valore”. 



Cosa fai se ti accorgi che un tuo allenatore gioca prima di tutto per il risultato?
“Guai se non si giocasse anche per il risultato. La differenza è data dal come pensi di poterlo raggiungere e cosa insegni ai tuoi ragazzi al fine di condurli alla vittoria. Io voglio che giochino per il risultato, ma anche che lo raggiungano attraverso la crescita e il coinvolgimento di tutti i ragazzi”



Qual è il primo pregio che riconosci in un allenatore?

“I miei allenatori devono saper tirare fuori il massimo da ogni calciatore, voglio che siano in grado di fare questo prima di ogni altra cosa”. 

Un giovane abituato a giocare in più ruoli diventerà un calciatore duttile da adulto?
“Ci sono calciatori predisposti a giocare in più ruoli e altri che invece fanno molta più fatica. Le forzature non fanno il bene dei giovani. Però tutto va ricondotto a un aspetto: dobbiamo essere in grado di infondere coraggio nei nostri ragazzi. Dobbiamo stimolarli al coraggio, il che significa «non preoccuparti, puoi giocare anche in un altro ruolo, se combatti la paura di farlo». Chiaro che questo poi va coordinato con le caratteristiche e le capacità dei calciatori. Noi adottiamo questo sistema senza fare confusione e lo facciamo soprattutto nelle fasce dei più piccoli, cui viene data la possibilità di provare esperienze di tipo diverso, in allenamento come in partita”.



Qual è la sfida più grande che si pone Samaden come responsabile del settore giovanile dell’Atalanta?
“Sviluppare e strutturare il più bel progetto educativo e formativo di calcio giovanile in Italia e non solo. Una sfida che deve affondare le radici nella storia di questo club, che ha sempre avuto grandissima attenzione ai valori, riuscendo poi a tradurre tutto in qualcosa che sia al passo con i tempi”. 

Poche persone affrontano l’argomento che riguarda i fuori sede. Parliamo di ragazzini che lasciano le loro famiglie andando a vivere a migliaia di chilometri dalla propria città. Come vi prendete cura del loro stato di salute psicofisico? 
“All’Atalanta possiamo contare su un gruppo di persone che fanno parte del nostro staff psico educativo, che è dedicato a tutti ma con particolare attenzione verso questi ragazzi. In secondo luogo, il nostro obiettivo è quello di fargli svolgere una vita quanto più vicina alle loro abitudini e anche su questo verte la nostra scelta di farli studiare presso strutture pubbliche e non private, dandogli la possibilità di socializzare e vivere come fanno tutti i ragazzi a casa propria. Gli offriamo anche la possibilità di vivere altre esperienze e svolgere altri sport. Ripeto, l’obiettivo è quello di fargli vivere una vita simile a quella che facevano a casa loro, senza trattarli troppo da giocatori. Poi non dimentichiamo che parliamo sempre di ragazzi minorenni, che vanno quindi controllati in quanto sotto la nostra responsabilità, ma devono essere liberi nella loro espressione di vita, insieme ai loro amici. E a seconda della loro età, hanno delle regole da rispettare”. 

Avrebbe mai pensato di lasciare l’Inter?
“No, nel mentre non lo avevo mai neanche immaginato, ma adesso posso dire di aver fatto la scelta giusta. Sia chiaro, non nel lasciare l’Inter,  ma nel provare una nuova esperienza”. 

Nuovi stimoli?
“Cambiare è un modo per crescere, fare nuove esperienze ti arricchisce. All’Inter ho vissuto una storia strepitosa, 33 anni bellissimi, ma il cambiamento mi ha dato la possibilità di mettermi nuovamente in discussione. Avevo dubbi sulla mia adattabilità al cambiamento, adesso sono spariti”. 

Cosa si è portato dietro nel suo bagaglio personale?
“Il presidente Massimo Moratti mi ha trasmesso l’insegnamento più caro, quello della costante attenzione che si deve avere quotidianamente verso tutte le persone. E quando parlo di persone non mi riferisco solo ai calciatori, ma a tutti quelli che lavorano attorno a noi e che spesso non ricevono l’importanza e l’attenzione che meriterebbero”. 

Ti è sembrato di sognare quando ti hanno messo a disposizione un budget?
“No, quello l’ho sempre avuto. Mi è sembrato di sognare nel momento in cui ho capito quale considerazione venisse data alla mia figura e al settore giovanile”. 

Come mai a Bergamo c’è questa attenzione che manca in altri posti?
“Forse sarebbe più corretto dire che da altre parti ce n’è di meno. Qui parla la storia, l’Atalanta ha sempre avuto questo tipo di approccio verso il settore giovanile. Quotidianamente la proprietà è attenta a quello che avviene attorno al nostro mondo. Luca Percassi è stato uno dei pochi a metterci la faccia quando è saltato fuori il problema del vincolo, spiegando come questa modifica normativa avrebbe affossato i settori giovanili di tutti i club del nostro paese. La nostra proprietà conosce anche i calciatori di 12 anni e questo rappresenta un enorme valore”. 

Cosa risponde a chi sostiene che in Italia non nascano più talenti perché è stata tolta la possibilità di giocare al calcio alle classi meno abbienti?
“Si può anche pensare che in minima parte possa essere un fattore da considerare, ma non credo che sia uno dei motivi di maggiore incidenza. Poi dopo i grandi fallimenti della nazionali siamo abituati a sentire tutte queste cose, come anche il discorso che si lavora poco sulla tecnica. Io credo che tutto possa essere inserito all’interno di un discorso più ampio, ma la verità sta nel fatto che bisogna seriamente investire sui giovani, non tanto su quello che accade in campo, quanto invece su quello che accade fuori dal campo. Dobbiamo fare in modo che i ragazzi e le ragazze trovino ambienti adatti in cui stare bene, prima di tutto. Principalmente giocando e divertendosi, con la speranza, magari un domani, di diventare calciatore. E quindi, in sintesi, quello legato ai ceti sociali non lo ritengo per niente un fattore determinante. Altrimenti sarebbe troppo facile, basterebbe intervenire su una cosa e la risolveremmo. Purtroppo non è così”. 

Se in questo momento avesse di fronte il ministro dello sport e le chiedesse di presentare un progetto di rilancio del calcio giovanile in Italia, quali sarebbero le sue tre colonne a sostegno dell’intera struttura?
“Al primo posto metto gli investimenti nella promozione e nella pratica del calcio nelle scuole, utilizzando per esempio lo strumento del calcio a 5, facilmente riproducibile in una palestra. Al secondo posto la creazione di una rete capillare, tecnica e organizzativa sul territorio, che possa essere riferimento per tutto il calcio di base, investendo in modo particolare  sulle risorse umane. Al terzo posto, l’implementazione del sistema di ranking dei settori giovanili, sia professionistici che dilettantistici. Ovvero la valutazione dei settori giovanili sulla base di alcuni parametri che obbligano le società a investire realmente sui settori giovanili”.

Ok, Signor Samaden, progetto approvato dal ministro. Quanto ci costa?
“Sicuramente meno rispetto a quanto sarà in grado di produrre”.

 

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