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Nike in crisi, Sinner non basta: il gigante non corre più

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Come ogni gigante che si rispetti, basta che barcolli e fa rumore. Se poi, fieramente e, vista la stazza, maldestramente, si aggrappa dove capita (o dove può), il rumore diventa frastuono e tutti corrono alla finestra a guardare quel titano da 150 miliardi di dollari che ci ha fatto calzare le stesse scarpe di Michael Jordan, Roger Federer, LeBron James, Cristiano Ronaldo.

Il gigante è Nike. Il 27 giugno scorso i dirigenti informano che il primo trimestre del 2025 andrà male e il semestre andrà peggio. Il 28 giugno le azioni crollano del 20%, un “giovedì nero”, il giorno peggiore dal 1980, quando l’azienda venne quotata: vanno in fumo 28 miliardi di dollari dalla capitalizzazione di mercato. Wall Street ha visto il titolo scendere del 30% da inizio anno e ha chiesto alla dirigenza “un cambio di regime”.

Nell’ultimo trimestre, i ricavi di Nike hanno segnato un -2% rispetto all’anno precedente, le vendite dirette ai consumatori sono diminuite dell’8%. Fatto salvo la pandemia e la crisi finanziaria del 2009, si tratta del peggior risultato dell’azienda dal 1999.

Mollata da Tiger Woods dopo 28 annidi collaborazione e di leggendarie magliette rosse, Nike, il marchio di abbigliamento di maggior valore al mondo davanti a Louis Vuitton, Chanel e Gucci, ha 53 anni e una crisi di mezza età: l’hanno abbandonata anche dall’asso del calcio inglese Harry Kane, che ha preferito Skechers, e come lui Casemiro è passato ad Adidas, Jack Grealish si è accordato con Puma. Prima di loro: Neymar, Thiago Alcantara, Sergio Ramos, Raheem Sterling e Eden Hazard.

 

EFFETTO SEPPIA

John Donahoe, amministratore delegato dal 2020 – prima Ceo di eBay, poi di ServiceNow – ha puntato tutto sull’“effetto seppia”, dando spazio ai vecchi modelli, Air Jordan, Dunk, Air Force 1. Ha funzionato fino alla prima curva: la gamma Jordan nel 2023 ha registrato un fatturato di 6,6 miliardi di dollari, +29% rispetto all’anno precedente. Due, però, le conseguenze: il mercato si è saturato in fretta. I nuovi possibili clienti, la Generazione Z, non hanno visto Michael Jordan neanche in Space Jam e indossare il Jumpman è come allacciarsi il gilet del nonno. La seconda ripercussione è stata che concentrare l’azienda sulla nostalgia, l’ha distolta dall’innovazione, dove invece ha investito, e con ottimi risultati, la concorrenza. Hoka (la società madre è la californiana Deckers Brands) e On, marchio svizzero, offrono calzature ad alte prestazioni sia per gli sportivi della domenica sia agli atleti: le azioni sono aumentate rispettivamente del 103% e del 44% nell’ultimo anno.

Un’altra decisione di corto respiro è stata concentrare le vendite sul sito web e sull’app: a più alto margine, certo, perché dirette al consumatore ma i competitor non vedevano l’ora e si sono presi la fetta di mercato delle grandi catene come Foot Locker. Donahoe, nel frattempo, ha tagliato quasi 2mila posti di lavoro solo nel 2020 e altri 700 lo scorso aprile, soprattutto vicepresidenti e direttore. Il lato perverso del “Just do it”. I licenziamenti, inoltre, non hanno soddisfatto né la stampa americana né tantomeno Wall Street, al punto che il cofondatore e maggiore azionista della società, Phil Knight, si è sentito in dovere di ostentare ottimismo: «John Donahoe ha la mia incrollabile fiducia e il mio pieno sostegno».

Dopo aver vestito nove nazionali agli Europei, l’azienda confida nelle Olimpiadi: è sponsor del Comitato Olimpico e Paralimpico degli Stati Uniti e ha speso per la campagna pubblicitaria dei Giochi di Parigi più che per qualunque altra manifestazione. «È un momento chiave per comunicare la nostra visione dello sport al mondo», ha dichiarato il Ceo. Se non fosse che all’evento per la presentazione dei look del team Usa di atletica leggera qualcuno ha notato che gli slip femminili non lasciavano largo spazio all’immaginazione, manco i body di Jane Fonda.

E non è solo il design a dare pessimi mal di pancia all’azienda. Anche la tecnica: a primavera, le divise create per la Major League di baseball erano in un tessuto quasi trasparente, le scritte troppo piccole e si scolorivano a contatto con il sudore (non formidabile per un prodotto sportivo). I fan sono insorti, la stampa ha sottolineato lo scarso interesse del marchio per i prodotti ad alte prestazioni e al commissario della lega Rob Manfred è toccato dichiarare che erano al lavoro con Nike per correggere i problemi.

 

GIUSTIZIA

Ultimo fronte dell’accerchiamento, il tribunale: una class action ha accusato l’azienda di aver rilasciato dichiarazioni false e fuorvianti sul successo della strategia direct-to-consumer, quella cioè che permette ai produttori di massimizzare i profitti bypassando gli intermediari. La forza di Nike è stata saper progettare “non oggetti ma idee”: le formidabili pubblicità con Jordan e Spike Lee dopo “Lola Darling”, era il 1991, immagini in bianco e nero e un ritmo così forsennato che ti trascina in negozio ancora oggi; l’abbigliamento “sociologico” che ha vestito il fenomeno della sottocultura delle comunità urbane e dell’hip hop; l’eclettismo di far correre “Forrest Gump” prima che fosse “un po’ stanchino” e di passare da Naomi Osaka a Ritorno al futuro, dalle collaborazioni con Comme des Garçons a Lost in Translation, dal supporto al Black Lives Matter del quarterback Colin Kaepernick fino alle sneaker gialle di Serena Williams sul red carpet del Met Gala (ovviamente disegnate da Virgil Abloh). Serve un’idea, per non restare “soltanto” una scarpa nella collezione permanente del Metropolitan di New York. Possibilmente, più brillante di una mutanda “ventilata”.

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