Marcell Jacobs a Parigi 2024, 100 metri per fare la storia
Nell'ultimo anno “Marcello” è stato più che altro Marcell. Là, a Jacksonville, in Florida, ha provato a ritrovare la migliore versione di sé. Ovvero quella che si diverte mentre corre, quella vista a Tokyo quando non aveva nulla e nessuno attorno. Ci è riuscito? Rana Reider, l’allenatore che ha scelto (e che lo ha scelto) da poco più di un anno, non risponde alla domanda ma si limita a dire che a Parigi (-7 alla Cerimonia di apertura) Jacobs sarà veloce. Molto veloce. Chissà se abbastanza veloce per replicare l’oro olimpico nei 100 metri.
Si è detto di tutto e di più di Marcell Jacobs in questi ultimi tre anni tranne una cosa, la più importante: ha saputo mettersi in discussione come pochi altri. Quando un atleta vince un oro olimpico e, nel suo caso, diventa l’uomo più veloce del mondo, è invitato a credere di essere perfetto. Se sei il migliore, sono gli altri a dover cambiare per batterti. Jacobs ha fatto il contrario. Ha deciso di cambiare lui e di cambiare tutto: il luogo in cui allenarsi, da Roma a Jacksonville; l’allenatore, da Camossi a Reider; i modi, dalla solitudine alle sedute in gruppo. E poi la corsa per percorrere i cento metri piani nel minor tempo possibile, smontata nel giro di pochi mesi e rimontata in quelli che avanzavano, anche se ne sarebbero serviti molto di più. Della mancanza di tempo per un simile processo, comunque, Jacobs non si è mai lamentato.
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ZONA DI COMFORT
Marcell è uscito dalla propria zona di comfort, è ripartito da zero, si è rimesso in gioco a costo di fare figuracce quando era al vertice. E lo ha fatto proprio perché era al vertice. Ha iniziato a sentirsi dire «siamo tutti qui per te», una frase che può sembrare gentile e invece mette addosso una pressione folle. «È un macigno». Perché le persone sensibili, e Jacobs è tra queste, sentono di doversi sdebitare e si caricano di responsabilità che in realtà non hanno. Per questa nauseante sindrome dell’impostore, Marcell per due anni ha corso meno bene rispetto a Tokyo e i muscoli che prima erano un punto di forza, così burrosi da contrarsi e decontrarsi a una velocità superiore alla media, hanno iniziato a tradirlo. E pensare che le fibre muscolari sono «l’unica cosa che ho preso da mio padre», un militare americano, figura da sempre assente nella vita di Jacobs: se pure l’unica eredità buona che ritieni di avere da un padre “cattivo” ti tradisce, pensi sia giunta l’ora di cambiare.
Mamma Viviana è stata favorevole al cambio di vita del figlio fin dal primo istante. Lo conosce troppo bene - avendolo allevato da sola, tra Castiglione e Desenzano, fino al trasferimento a Gorizia per allenarsi con Camossi al compimento della maggiore età - per non aver capito in anticipo di cosa aveva bisogno. Così la scoperta dell’America di Jacobs è stata in realtà la riscoperta di sé, sia a livello psicologico sia tecnico.
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«Mi mancava saper gestire la paura del giudizio altrui. Mi facevo troppo carico delle aspettative degli altri e non pensavo alle mie», ha ammesso di recente. È il classico profilo dell’ansia che spesso sfocia in attacchi di panico. Qualsiasi psicologo alla lettura l’avrà riconosciuta. Il problema è che questo stato d’animo accelera i battiti, rompe il respiro, irrigidisce i muscoli, tutto il contrario di quanto ha bisogno un velocista.
«Non era più una cosa solo per me, come lo era stato fino alle Olimpiadi». È tornata a esserlo laggiù, dunque la sua scelta è stata corretta a prescindere dai risultati che porterà a Parigi. A Roma, per gli Europei, si è infatti visto un Jacobs più sereno, divertito e attento a un nuovo particolare: la simbiosi con il pubblico.
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NUOVA PARTENZA
Dal punto di vista tecnico, Jacobs ha lavorato sulla partenza, suo punto debole, e su una diversa tenuta del passo. Sul piano atletico, ha cambiato tutto: visti gli infortuni, ha prima aumentato il tono muscolare, poi lo ha reso più flessibile e infine più veloce. Il 9.92 di Turku di un mese fa (18 luglio) resta il suo miglior tempo stagionale oltre che miglior tempo dopo l’oro di Tokyo. È l’unica volta in cui, secondo Reider, «Marcell ha riposato». Non si avvicina ai prodigiosi tempi degli americani guidati da Lyles ma, come ha detto il coach a Repubblica, «voglio vederli in Europa» perché «lo sanno tutti che se devi fare il personale vai a Eugene, un posto speciale per quello», ovvero baciato dalle condizioni ideali per correre.
Jacobs e Reider parlano con convinzione di «difendere l’oro olimpico» anche se non si sono mai avvicinati a un tempo utile. Perché? Forse sono convinti di arrivare a Parigi tirati a lucido e che tutto quanto visto finora sia un allenamento, niente di più. Forse si sono nascosti in pista come Marcell ha voluto nascondersi nella vita, limitando al minimo l’uso dei social nell’ultimo anno, rinunciando a qualche impegno (e ingaggio) pubblicitario per «diventare invisibile» e chiedendo a sua moglie Nicole di fare lo stesso. Il salto da compiere - e di salti se ne intende visto che prima di convertirsi alla velocità, saltava in lungo - ora è il più difficile: arrivare a Parigi da campione in carica ma scendere in pista come outsider. Lo avete mai sentito nominare questo Marcell Jacobs?