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Italia, troppi stranieri nelle squadre primavera: alle origini del disastro

Gabriele Galluccio
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Ogni volta che la Nazionale fallisce un appuntamento - da quattordici anni a questa parte accade di frequente - torna in auge il tema dei settori giovanili italiani. A rimetterlo al centro del dibattito calcistico è stato Arrigo Sacchi, che in un’intervista al Corriere della Sera ha centrato pienamente il problema: «Chi deve decidere è così preso dagli aspetti politici che non pensa mai alla tecnica, al pallone, nel senso stretto. Serve un rinnovamento». A partire dalle strutture, senza le quali non c’è progettualità e quindi non c’è crescita. In Italia c’è un solo centro federale, costruito nel 1957: come pensiamo di competere con gli altri Paesi? La Germania che sta dando spettacolo a Euro 2024 e mettendo in vetrina giovani fenomeni del calibro di Musiala e Wirtz conta 54 centri di eccellenza e 40 scuole di élite. Meglio non scomodare il favoloso modello spagnolo, basta evidenziare che la travolgente Nazionale di Yamal e Williams è figlia dei centri federali e dei settori giovanili. Persino rispetto alla piccola Svizzera siamo indietro in quanto a strutture e progettualità.

Chi ha in mano il giocattolo del calcio deve prima occuparsi di queste questioni, poi semmai può lamentarsi dei troppi stranieri nelle rose dei club di serie A e in quelle delle Primavere. È fattuale che importando troppi giocatori dall’estero si toglie spazio agli italiani, però è anche vero che molti dei nostri giovani non hanno il livello per giocare in prima squadra. I motivi sono molteplici: in tanti casi manca la qualità individuale perché a livello giovanile si tende a lavorare troppo sulla tattica e troppo poco sulla tecnica. Tra l’altro il livello degli allenatori giovanili in certi casi è ambiguo, per non dire scadente: serve personale altamente qualificato per sviluppare il talento. Poi c’è il problema del salto enorme tra la Primavera e la prima squadra, con quest’ultima che anziché mandare allo sbaraglio o tenere a marcire in panchina il giovane di turno preferisce girarlo in prestito nelle serie minori “a farsi le ossa”. Così però il giovane perde tempo prezioso, senza avere garanzie di svilupparsi e di essere richiamato nel calcio che conta. In questo senso le seconde squadre, come quelle di Juventus e Atalanta, potrebbero essere di grande aiuto: un conto è sperdere i giovani in giro per l’Italia, un altro è tenerli sempre in casa, potendo monitorarne l’allenamento, le prestazioni e la crescita.

 

 

Tornando alla poca qualità delle Primavere, un caso emblematico è il Lecce che l’anno scorso si è laureato campione d’Italia. Gli undici titolari e i quattro subentrati che hanno giocato la finale scudetto con la Fiorentina erano tutti stranieri. Il motivo è semplice: per una piccola società come il Lecce è più semplice pescare all’estero giovani talenti più pronti per il salto, tanto che di quella squadra dopo un anno due elementi (il 18enne Dorgu eil 21enne Gonzalez) sono diventati titolari fissi in serie A, mentre un terzo (il19enne Berisha) si è rivelato una valida alternativa. Quindi il problema non è il Lecce che prende stranieri forti e li trasforma in giocatori da prima squadra (e in asset strategici sul mercato), ma il fatto che la stragrande maggioranza dei giovani italiani non è al livello degli “importati”. Nell’ultima stagione circa il 23% dei giocatori (221 su 993) delle Primavere erano stranieri, ma la loro incidenza in campo è molto maggiore. Quindi più che proteggere nostri ragazzi come se fossero dei panda, sarebbe il caso di tornare a insegnargli il gioco del calcio.

 

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