Euro 2024, Italo Cucci: "Perché l'Italia vince solo sotto pressione"
Dove ti trovi Italo (Cucci, 85 anni, monumento del giornalismo sportivo italiano)?
«A Pantelleria».
Vacanza?
«Ma va, vivo qui dal 2010 con la famiglia. Son tornato dal Mondiale in Sudafrica con la broncopolmonite e ci siamo trasferiti. C'è un ottimo aeroporto».
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Beh, bel posto...
«Guarda, mi piace sempre dire che ho girato il mondo a spese degli altri, ma questo è un posto unico. In più mi hanno nominato Commissario del Parco Nazionale!».
Cosa dici di questi Europei...
«Mi ha colpito la gran voglia di calcio che c'è in giro: ascolti alti, tanto coinvolgimento. C'è voglia di pallone e questa è una garanzia per il futuro del nostro mestiere, non che la cosa mi riguardi particolarmente...».
L'Italia come ti è parsa?
«Abbiamo affrontato una buona Nazionale, l'Albania, e ci siamo comportati bene. Hanno votato Chiesa come miglior giocatore ma io ho visto soprattutto un grande Barella».
L'inizio è stato choc...
«Sembrava l'esordio di Argentina 78 a Mar del Plata con la Francia: loro segnano dopo pochissimo e poi la ribaltiamo. Qui l'ha rimessa a posto Bastoni, là Paolino Rossi, qui ha raddoppiato Barella, là Zaccarelli».
Ne hai viste tante di "Italie", questa a che livello è?
«Festeggio 50 anni dal mio primo Mondiale, quello del '74. Là andammo con i fenomeni: c'erano i Rivera, i Riva, i Capello, gli Anastasi, i Facchetti. Avevamo il mondo intero ai nostri piedi e abbiamo fatto ridere i polli perché ognuno giocava per conto suo. Qui invece c'è il gruppo, si vede. Ci sono anche i singoli in cerca di gloria- siamo pur sempre in periodo di mercato - ma soprattutto c'è il gruppo».
Come nel 1982...
«All'epoca però Bearzot lo difendevo solo io... E mi assalirono in tanti».
Perché Bearzot prima di diventare un eroe stava così sulla balle a tutti?
«È stato il protagonista della più grande bufera mediatica di tutti i tempi. In principio non piaceva neanche a me, ma alla vigilia del Mondiale in Argentina ebbi la fortuna di conoscerlo e tra un whisky e una sigaretta capii il personaggio. In Spagna aveva contro "i romani" perché non aveva portato Pruzzo e "i milanesi" perché non aveva portato Beccalossi, ma lui era adorato dai suoi ragazzi. La critica lo prendeva in giro perché aveva studiato il latino e, insomma, volevano farlo fuori tutti, anche i Viola e gli Ameri».
I giornalisti sanno essere molto cattivi...
«La tribuna stampa guidata da Biscardi era totalmente "contro", poi dopo il trionfo son saliti tutti sul carro al grido di "hanno reagito grazie alle nostre critiche!". Suvvia, no...».
Gli sei stato vicino anche nella sciagurata spedizione messicana del 1986?
«Sì, l'ho accompagnato fino alla decadenza. A Città del Messico lo ritrovai in uno squallido Holiday Hotel che parlava con Cesare Maldini, "Ma chi mettiamo su Platini?". E Bearzot: "Metemo Baresi".
Solo che era Beppe. Li guardo: "Per fortuna ho già fatto la carta d'imbarco per il rientro". Non reagirono, sapevano perfettamente come sarebbe andata».
Eh, una volta si parlava direttamente con i Ct e i calciatori...
«Eh sì, c'era il dialogo, magari ti chiamavano per darti dello ma era tutto più vero. Dal 1975 al 2005 ho fatto il direttore e ho visto i miei colleghi diventare sempre più tristi. Io avevo un giocatore nella Juve, uno nel Milan e uno nell'Inter che mi dicevano le cose...».
I nomi!
«Giammai!».
Il miglior Ct di sempre, Bearzot a parte?
«Lippi, ha vinto in mezzo al delirio Calciopoli».
Un tecnico che ti piace?
«Ho un debole per De Zerbi. E non mi piace come hanno fatto fuori Allegri. Ma alla Juve storicamente se prendi più luce dei reggenti ti fanno fuori. È successo anche a Marotta. Negli Anni '30 con la scusa dell'omosessualità fecero fuori Carlo Carcano che stava vincendo il quinto scudetto consecutivo».
E a Thiago Motta come andrà?
«Gli ho detto "Stai attento che all'ultimo tecnico passato dal Bologna alla Juve, Maifredi, è andata male". A Torino non ti aiutano, te la devi cavare. Se gli riesce il miracolo abbiamo scoperto l'allenatore del secolo».
Chi vince l'Europeo?
«La Germania, ma confido molto nella nostra resilienza».
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