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Lo studio pagato dal Cio: "Trans svantaggiati rispetto alle atlete". Scoppia la polemica

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Costanza Cavalli
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Dalla corsa per la divisa più bella ai pannelli solari galleggianti sulla Senna (doverosa patina ecologista), anche un affare politico aleggia sulla 33esima edizione delle Olimpiadi: uno studio finanziato dal Comitato Olimpico Internazionale ha dimostrato che le atlete transgender sarebbero fisicamente svantaggiate rispetto alle femmine biologiche. La ricerca, pubblicata sul British Journal of Sports Medicine con il titolo “Forza, potenza e capacità aerobica delle atlete trans”, ha raccolto i dati di 19 uomini cisgender (quelli cioè la cui identità di genere corrisponde al sesso constatato alla nascita), 12 uomini trans, 23 donne trans e 21 donne cisgender. I ricercatori, guidati da Yannis Pitsiladis, hanno pubblicato un annuncio sui social media: per partecipare allo studio era necessario allenarsi tre volte alla settimana e i candidati trans dovevano aver assunto la terapia ormonale per abbattere i livelli di testosterone da almeno un anno. Nessun partecipante gareggiava a livello nazionale o internazionale.

I risultati indicano che le trans hanno una maggiore forza di presa delle mani (è l’hand grip test, un esame che indica la forza muscolare complessiva), ma un’inferiore capacità di salto rispetto alle donne. Non solo: le trans avrebbero una minore capacità polmonare delle donne e non ci sono significative differenze di densità ossea, elemento strettamente legato alla forza muscolare. Pitsiladis ha sbandierato i risultati della ricerca come definitive dimostrazioni che «le donne trans non sono uomini biologici» e che quindi le trans che competono negli sport femminili non godrebbero di vantaggi sproporzionati. Gli ha fatto eco Joanna Harper, ricercatrice transessuale (c’è spazio per essere maliziosi) all’Oregon Health & Science University: la scelta di vietare ai trans di competere nelle categorie femminili è «inutile e ingiustificata».

 

 

 

Durissime le stroncature: Ross Tucker, medico dello sport e ricercatore per il World Rugby (l’organismo di governo del rugby nel mondo) ha criticato il risibile campione preso in esame, la scarsa durata dello studio, l’autoselezione dei partecipanti e l’eccessiva differenza di età (dai 9 ai 37 anni), il mancato controllo sul trattamento ormonale dei volontari e i diversi livelli di allenamento: sono stati messi a confronto trans non allenate, e pure in sovrappeso, con donne in ottima forma fisica. «È un lavoro scadente», è il commento rilasciato al Telegraph, «ed è incredibile che venga definito uno studio di riferimento. Quando l’ho letto ho pensato che il Cio e i suoi ricercatori non fossero riusciti a trovare abbastanza atleti transgender da monitorare nel tempo, e così hanno semplicemente preso tutto ciò che potevano trovare».

E mentre il Cio consente alle singole federazioni sportive di stilare le proprie regole di ammissibilità per le atlete transgender (il divieto vige nel nuoto, nell’atletica, nel ciclismo, nel rugby), in Italia la battaglia è stata dell’avvocato Fausta Quilleri: nel 2021, aveva presentato una petizione, firmata da 24 sportive, e l’aveva sottoposta alla Federazione italiana di atletica leggera e al governo Draghi. Non c’è stata risposta. «Con un competitor transgender la concorrenza è sleale e il risultato disonesto», ha detto l’avvocato, «Si tutela l’identità transgender ma si dimentica quella delle donne: eppure le leggi per le pari opportunità obbligano al rispetto dell’individualità femminile». L’avvocato di studi scientifici, analisi, dati, ne ha un tavolo pieno: «La biologa Emma Hilton ha analizzato 240 donne trans con l’ormone maschile sotto la soglia richiesta. La conclusione è che gli ormoni femminili sulle donne trans non diminuiscono la struttura ossea, né la capacità polmonare né quella cardiaca, il calo della forza muscolare è irrisorio».

 

 

 

D’altra parte, il tema non è nuovo, da sempre ci sono atleti uomini che si infiltrano nelle categorie femminili. Nel 1936 Heinrich Ratjen, con il nome Dora, partecipò alle Olimpiadi di Berlino nel salto in alto, arrivando quarto, e due anni dopo agli Europei di Vienna, dove stabilì il record mondiale di un metro e 70. La medaglia d’oro gli venne confiscata quando venne smascherato sulla strada del ritorno in Germania: si era fatto male la barba.

 

 

 

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