Luciano Spalletti? Chi ha (già) fatto fuori: rivoluzione azzurra
Da quasi due mesi Luciano Spalletti è il commissario tecnico della Nazionale italiana. Da due giorni ne è anche l’allenatore. Lo si può notare dalla seconda lista di convocati che, rispetto alla prima, taglia alcuni ponti con il passato, e da una conferenza stampa lunghissima (oltre un’ora e mezza) in cui il ct ha comunicato il suo codice di comportamento. Nell’idea di Spalletti, l’Italia che «tutti devono avere a cuore» è una squadra di club, non una selezione. I giocatori devono riconoscere Coverciano come il loro secondo centro sportivo, non un luogo a cui sono prestati per qualche giorno. Qui si fa l’Italia e la si fa come vuole Spalletti, altrimenti il presidente Gravina avrebbe chiamato un tecnico meno blasonato, rinomato e più facilmente malleabile dall’alto.
La nuova gestione parte dal campo, sia esso quello dell’allenamento o della partita. È diverso il numero dei convocati: non più trenta e passa giocatori ma 27, di cui 4 portieri, e sono già troppi per i gusti del ct. Ne chiamerebbe 25 come nelle competizioni ufficiali, ma un paio in più servono ad accorciare la lista di sostituti reperibili e non finire di traverso ai colleghi dei club, con cui Spalletti vuole tenere rapporti, tant’è che è andato a trovarne di persone una manciata e continuerà il giro senza sosta.
LA CURA DEI DETTAGLI
Avere meno calciatori significa poterli allenare meglio, curando maggiormente i dettagli quali la ricerca dello spazio tra gli avversari e gli interscambi di posizione. A Mancini allargava i raduni per coinvolgere più calciatori possibili in ottica futura, Spalletti li stringe per curare meglio i rapporti personali e preparare nei dettagli la prossima partita (contro Malta, sabato, e contro l’Inghilterra, martedì). Dal punto di vista umano, il nuovo ct si comporta come il CEO di una grande azienda. Mette in chiaro le cose («Chi ondeggia come un ebete a Coverciano con me non avrà possibilità di esistere calcisticamente») e non agisce prima di vedere come va. È diverso da Mancini che agiva come l’imprenditore di una piccola realtà, controllando tutto e decidendo in anticipo e in autonomia, o da Conte che faceva sia il sergente sia il soldato, o da Prandelli che si proponeva come un padre o uno zio a cui chiedere consiglio e infatti aveva cercato di impostare l’Italia come se fosse una famiglia allargata (non senza polemiche, nell’ultimo ritiro mondiale della storia, quello del 2014 a Mangaratiba) basata su un Codice Etico.
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E Ventura? Ecco, lui non decise cosa essere, né allenatore né selezionatore, non un capo ma neanche un amico, e infatti divenne capro espiatorio del fallimento. Spalletti ha capito qual è la differenza tra un club e la Nazionale, nonostante sia ct per la prima volta in carriera. Ovvero che i calciatori non vengono stipendiati da quest’ultima, quindi non si possono comandare. Quindi chiedere loro responsabilità è l’unico modo per tenerli in riga. In questo senso va letto il richiamo a Zaccagni e Chiesa circa la gestione degli acciacchi, che sarà autonoma del giocatore quando gli esami non evidenziano infortuni gravi. Spalletti vuole creare un luogo di lavoro dove «si fanno le cose seriamente». Una cosa tutt’altro che banale, in Italia.
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