Fabrizio Biasin si confessa: la mia vita tragicomica col pallone tra le balle
Per gentile concessione dell’editore e dell’autore pubblichiamo l’introduzione al libro di Fabrizio Biasin “Odio il calcio” (Sperling & Kupfer) in libreria da oggi.
Ve la faccio breve: don Franco era sempre incazzato. E non si dovrebbe dire così di un prete ma, oh, quello urlava come Al Bano quando gli concedono la comparsata sul palco dell’Ariston. «Aaaaaaaahhhhh, maledetti! Dovete uscire immediatamente dal campetto! Tornate dalle vostre madri se le avete, oppure vengo a prendervi a calci! Aaaaaaaahhhhh!» Era tipo tosto, don Franco. Ma noi di più. Giocavamo a pallone ininterrottamente. Sempre, noncuranti di qualunque genere di condizione atmosferica, fisica e soprattutto psicologica. Il bullismo, all’epoca, era accettato dalla comunità, al punto che a scuola gli facevano l’appello. «C’è Bullismo?» «Presente!» «Ah, ecco, bene, datti da fare anche oggi, mi raccomando». «Sì, prof, oggi al campetto cerco nuovi deboli da vessare in tutti i modi possibili, così da segnarli per l’eternità». «Bravo, mi raccomando, che poi domani interrogo». Ci si ritrovava dopo la scuola al suddetto campetto, quello della chiesa, quello fatto di sassi mescolati a terra marcia e primordiale, quello con le righe storte disegnate con la calce, quello delle porte arrugginite, prive di reti e con una delle due certamente più alta dell’altra. Si organizzavano colossali ed eterne sfide 7 contro 7, ma anche 11 contro 11 o 13 contro 12. In caso di «pari contro dispari» il più forte giocava nella squadra meno numerosa. Si organizzava la partita, poi la rivincita, poi la rivincita della rivincita, poi... ci siamo capiti.
TIMIDI E MUTILATI
Il più forte dell’ambaradan formava le squadre con il secondo più forte, e il diritto alla prima chiamata era determinato dall’esito della «conta» o da colossali sfide a «morra cinese». Chi vinceva sceglieva il suo preferito, e via via si scendeva a quelli meno dotati, e giù fino ai più scarsi, quelli senza speranza, gli zoppi, gli sciancati, infine i mutilati e i timidi. I timidi erano trattati peggio dei mutilati. Se per caso eri timido, ma anche mutilato, ti trasformavi automaticamente in carne da macello. Gli ultimi andavano in porta e per le note questioni di ruggine rischiavano di prendere il tetano dopo ogni bislacco intervento in prossimità dei pali. Potevano evitare l’imbarazzo di vestire il ruolo dello sfigato solo e soltanto se avevano portato il pallone da casa. Oddio, pallone, si trattava quasi sempre di osceni agglomerati di gomma dura ovoidali e molli come cachi, oppure, al contrario, duri come tette rifatte malissimo.
Lo scopo del gioco era arrivare a dieci, ma a un bel punto si perdeva il conto ed era tutto un tentativo di fottersi e prendersi a parolacce e promesse di odio eterno l’uno con l’altro. L’arbitro non esisteva, decideva la maggioranza, in maniera più o meno democratica o dittatoriale (dipende dal punto di vista); le rimesse laterali non erano contemplate, perché valeva «la sponda».
Col passare delle ore si formavano inquietanti nuvole di polvere fittissima mischiata a calce, una sorta di nebbia tossica simile a quella di Chernobyl che, tra l’altro, da poco aveva vissuto il suo inferno. Appena il sole iniziava a calare, arrivavano le prime defezioni; i più deboli finivano ai lati del campo a leccarsi le ferite, o anche a piangere fortissimo, il sangue scorreva a ettolitri, la carne era dilaniata, soprattutto sulle ginocchia e sulle cosce, perché tu, da buon ottimista, dicevi «Faccio la scivolata come Maradona!» solo che Diego la faceva sull’erba del San Paolo e tu sul devastante mix di ghiaia e silice tagliente del Sant’Andrea. Non era il campo di un oratorio, era un’affettatrice. Anzi, peggio, era Squid Game, con la differenza che invece di morire in santissima pace come i coreani dovevi ripresentarti il giorno dopo ricoperto da croste troppo «fresche» e certamente incapaci di resistere al nuovo supplizio. «Be’, potevi anche stare a casa, no?». No, non potevi per questioni di gerarchie da stravolgere.
Esserci sempre ti dava la speranza di scalare complicatissime classifiche darwiniane, una sorta di crudele selezione naturale, ché se un pomeriggio venivi scelto per ottavo e quello successivo per quinto ti sentivi diointerra, ma se capitava il contrario diventavi il gingillo del bullo del momento, la vittima prediletta, il fallito da stroncare. Credetemi, erano realmente cazzacci tuoi, e neppure potevi cercare conforto sui social, perché banalmente all’epoca non esistevano. L’altro diointerra, come detto, aveva le fattezze di don Franco, e si presentava verso le 19/19.30, all’occorrenza alticcio. Tirava giù tutti i santi del calendario- sospetto per deformazione professionale- e in qualche modo liberava il campetto ormai ridotto a scena di guerra.
L’ALLEGRO CHIRURGO
A casa si tornava distrutti, e quasi sempre zoppicando. Papà ti diceva: «Non hai fumato, vero? Tu e quegli altri cretini dei tuoi amici». Tu avresti voluto dirgli «Papà, guarda che il mix terra+calce che ho respirato tutto il giorno equivale a un pacchetto di Muratti senza filtro», ma ti limitavi a sussurrare «No, padre, ho giocato al pallone». «E sei forte, figlio mio?». «Sono sopravvissuto, papà, quindi credo di sì». Mamma, invece, si incazzava come una iena e «Non si torna dopo il tramonto, quante volte te lo devo dire!» e «Sei sporco da fare schifo!» e «Ma giocate a pallone o all’Allegro chirurgo? C’è sangue dappertutto, scimunito!». Poi prendeva il barattolo di acqua ossigenata, il cotone e «Guarda che brucerà un po’». Eccome se bruciava, talmente tanto che a pensarci sento ancora il pizzicore. Ecco, come molti di voi anch’io sono cresciuto a pane & calcio. Mica l’ho scelto, è lui che ha scelto me. Se vogliamo è una cosa molto italiana, ma anche molto naturale. Il calcio l’ho scoperto a scuola, ritrovato a casa, c’era quando mi sono innamorato la prima volta, poi quando sono stato tradito, mi ha accompagnato il giorno della laurea, l’ho perfino trasformato in un mestiere e ora in un libro (oggigiorno un libro non si nega a nessuno). Il pallone è sempre stato il mio «sottofondo naturale», e davvero non so quanto ve ne possa fregare, ma ormai siamo in ballo e mi va di raccontarvelo.