Napoli, Maradona? "Non c'era niente da fare": la confessione di Ottavio Bianchi
Ottavio Bianchi è il simbolo di un'Italia che forse non esiste più. Partito dalla provincia lombarda, ha saputo scalare le vette del calcio italiano fino allo scudetto conquistato con il Napoli nella stagione 1986/1987. Da allenatore e da giocatore non ha mai rinnegato i propri principi: "Sono stato cresciuto nella cultura del lavoro. Il motto del mio primo allenatore, Renato Gei, era: 'laurà, laurà, laurà' (lavorare, lavorare, lavorare, ndr ). A questo sono sempre stato fedele, anche se forse avrei potuto essere meno intransigente con me stesso". In una lunga intervista al Corriere della Sera, il tecnico bresciano ha però confessato di aver rischio di smettere quasi subito. "A 17 anni - racconta Bianchi - Avevo appena esordito in serie B con il Brescia. Subii un gravissimo infortunio al ginocchio (lesione del crociato). I medici mi dissero che non avrei più camminato".
Bianchi è riuscito fortunatamente a lasciarsi l'infortunio alle spalle. Anche se non nega che gli abbia condizionato la vita: "Mi ha indurito. Rimasi fermo per due anni. Quando passi tanto tempo fra ospedali e sedute di durissima rieducazione (non esistevano interventi chirurgici allora) non puoi non uscirne segnato". E l'attitudine da vero duro se la sarebbe poi portata con sé anche nell'avventura da allenatore del Napoli. "Sono sempre stato accettato come sono - spiega Bianchi - e i napoletani non hanno mai pensato di cambiarmi. Ricordo, da giocatore, il primo incontro con Achille Lauro. Mi disse: 'Guaglio’, m’avevano detto che tenevi la capa tosta'".
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Come detto, il punto più alto della sua carriera lo raggiunse sotto il Vesuvio, quando riuscì a portare per la prima volta il tricolore nel capoluogo campano. Ma l'avventura di Bianchi nel club partenopeo non era partita nel migliore dei modi. L'allenatore bresciano, avendo vestito in passato la maglia azzurra, conosceva perfettamente la piazza di Napoli. Ed era molto restio ad allenare una squadra che difficilmente avrebbe potuto competere per la vittoria del campionato. "Allenavo il Como - racconta il tecnico - quando mi chiamò Italo Allodi. Gli dissi di no perché ritenevo impossibile vincere qualcosa. Avevo conosciuto l’ambiente da calciatore. Giocavo con Zoff, Sivori, Altafini, eppure non vincemmo niente perché non c’era la mentalità del lavoro duro. Dopo una vittoria scoppiava la festa...".
Ma poi qualcosa gli fece cambiare idea: "Sì, dissi: vengo ma si fa come dico io. Indossai l’elmetto e iniziò l’avventura". Il protagonista indiscusso di quella cavalcata fu Diego Armando Maradona. Tra l'allenatore e l'argentino c'è sempre stato un rapporto schietto. Il tecnico infatti non aveva paura di giudicare i comportamenti fuori dal campo del Pibe de oro. "Avrebbe dovuto fare una vita più regolare, evitare certe frequentazioni. Un giorno gli dissi che avrebbe fatto la fine di un pugile allo sbando. 'Lei ha ragione, mister', mi rispose, 'ma io voglio vivere la vita con il piede che spinge sull’acceleratore'. Allora mi resi conto che non c’era niente da fare".
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