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Albertini, la lezione di Berlusconi: "Quella telefonata, il lunedì mattina"

Alessandro Dell'Orto
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Demetrio Albertini, chiuda gli occhi e ci racconti Silvio Berlusconi con tre aggettivi.
«Visionario. Conquistatore. Capace di stare con la gente. E aggiungo combattente».

Perché visionario?
«Era avanti. Ha preso il Milan vicino al fallimento e ha annunciato: diventeremo i più forti del mondo. Capito? Poteva limitarsi a puntare allo scudetto o alla Coppa Campioni, invece è andato subito oltre ogni aspettativa. E ci ha visto giusto».

Conquistatore?
«Tutto ciò che ha fatto l’ha fatto al massimo: edilizia, calcio, politica, tv».

Capace di stare con la gente?
«Si è sempre adattato a qualsiasi situazione e al contesto in cui si trovava. E sapeva conquistare le persone. Barcellona 1988, siamo sul pullman dopo aver battuto 4-0 lo Steaua e aver vinto la Coppa Campioni, per strada ci sono italiani che festeggiano animatamente e la polizia a cavallo inizia a usare le maniere forti. Il presidente fa fermare il bus, scende e difende i tifosi rossoneri in difficoltà».

Di essere combattente l’ha dimostrato anche in questo ultimo tormentato periodo della malattia.
«C’è chi si è stupito a vederlo in tv dopo 12 giorni di terapia intensiva. Io no, anzi mi sembrava normale che riapparisse pubblicamente perché lo vedevo come una figura quasi mitologica vivente. Sapevi che stava male, ma dentro di te lo consideravi un po’ immortale».

Lei l’ha vissuto da vicino per più di 15 anni al Milan, dal 1987 al 2002. Spogliatoio, allenamenti, partite, trionfi e qualche sconfitta.
«Sono stato una giovane promessa e poi una bandiera rossonera, e in ogni situazione è sempre stato capace di usare le parole giuste per quel momento».

Torniamo indietro nel tempo. Primo incontro? Perché sorride?
«Non l’ho mai raccontato a nessuno. Trofeo Berlusconi del 1988, gioco negli allievi, ho 16 anni e vengo aggregato alla prima squadra. Alla vigilia della partita mi dicono che il presidente vuole conoscermi».

Ansia?
«Tantissima, anche perché per noi ragazzini lui è già un mito».

E perché?
«Con la gestione Farina nel settore giovanile scendevamo in campo con le maglie indossate al contrario perché lo sponsor continuava a cambiare. E poi giravamo in t-shirt. Berlusconi invece, appena arrivato, ci aveva rivestiti da testa a piedi: pantaloni grigi e doppiopetto blu».

Diceva dell’incontro.
«L’ansia iniziale cresce quando Filippo Galli e i vecchi della squadra mi prendono in un angolo e mi fanno una testa così: “Mi raccomando, sistemati bene la cravatta, stai composto, non avere le mani sudate perché a lui dà fastidio e bla bla bla”».

Poi?
«Arriva per pranzo e si avvicina. “Demetrio, mi hanno detto che sei brianzolo come me. Ma per quale squadra tifi? Sai, in Brianza ci sono tanti juventini...”.
E io: “Il mio idolo è Tardelli, ma tengo al Milan perché sono qui da tanti anni e questa ormai è la mia famiglia”. Sorriso: “Bravo, hai risposto benissimo”».

Primo esame superato. Altri incontri?
«Dopo un allenamento si accorge che indosso le scarpe senza calze. Mi prende sottobraccio: “Vedi Demetrio, i tuoi piedi sono i tuoi strumenti di lavoro: li devi tenere al caldo e curare”».

Quasi un padre.
«Sì e le racconto questa. Nel 1991, rientrato dal prestito al Padova, mi faccio male a una caviglia. Il lunedì mattina sono a casa dei miei genitori e squilla il telefono fisso. Mi dicono: “È la segretaria di Berlusconi, il presidente ti vuole parlare”. Penso a uno scherzo, invece è proprio lui: “Demetrio, devi curarti con calma. Stai fuori due partite che gioca Ancelotti, ti riprendi e poi rientri”».

Quando - anni e molti trofei dopo - lei diventa una bandiera come cambia il vostro rapporto?
«Nel 2000 il Milan acquista Redondo. Sono in difficoltà, lo chiamo e gli espongo i miei dubbi: “Presidente, mi dica quanto valgo che me ne vado”. E lui: “Io non voglio cederti, ma comunque ne riparliamo di persona”. A metà settimana arriva in elicottero a Milanello, cosa insolita lontano dalla partita, ci raggiunge in campo e dice a Zaccheroni: “Mister, le rubo un giocatore”. Mi mette una mano sotto il braccio e iniziamo una lunga passeggiata in cui mi spiega perché non me ne devo andare. Convincendomi a restare».

Aveva ragione anche quella volta. A proposito, ma le è mai capitato di contraddirlo?
«Torno dagli Europei di Francia, quelli del gol di Trezeguet e della polemica con Zoff, e mi telefona. “Demetrio, avete giocato bene, ma se aveste marcato a uomo Zidane...”. Io: “Ma no, non sarebbe cambiato molto”. Pausa. “Io invece penso di si perché...”. Capito? Non c’era stato verso di fargli cambiare idea».

Berlusconi punto di riferimento per i singoli giocatori, ma anche per il gruppo. Come era il rapporto con lo spogliatoio?
«Fantastico. Sapeva far parte della squadra, il giorno prima delle partite veniva sempre a pranzo con noi, raccontava barzellette e diventava uno di noi. Sa cosa è successo una volta?».

Dica.
«Nel 1999 il Milan acquista Shevchenko e scommetto con Berlusconi: “Se segna 25 gol in campionato lei ci regala una vacanza nella sua villa in Costa Smeralda”. Il presidente accetta e all’ultima giornata Sheva è a quota 23. Giochiamo contro l’Udinese, Shevchenko segna su rigore, sta per raddoppiare al 93’, ma il portiere fa un miracolo».

Scommessa persa.
«Sì, ma il presidente ci dà comunque le chiavi della villa...».

Il suo Milan ha deluso poche volte. In quei casi come vi ricaricava?
«Responsabilizzandoci, ricordandoci chi eravamo e quali erano i successivi obiettivi da raggiungere».

Con lei forse esagerò, definendola il “nuovo Rivera”.
«Paragone che non mi piaceva, metteva addosso troppa pressione».

Albertini, quando è stata l’ultima volta che vi siete incontrati?
«A Roma un po’ di anni fa. La segretaria chiama dicendo che lui vuole vedermi e mi dà appuntamento per la mattina successiva alle 7.30 a Palazzo Grazioli. Accendo la tv e vedo Berlusconi in diretta negli Usa con Obama. Penso di aver sbagliato a capire la data, che ci sia un errore. Il giorno dopo, invece, il presidente è là, puntuale a Roma ad aspettarmi».

Qualcuno propone di intitolare a lui il nuovo stadio del Milan.
«Bah, non so. Forse sarebbe un po’ riduttivo per quello che ha fatto. Berlusconi è stato protagonista della sua vita e la sua vita è stata protagonista dell’Italia intera».

Albertini, ultima domanda. Richiuda gli occhi come all’inizio e pensi al momento più bello che ha condiviso con lui.
«So che vi immaginate chissà quale partita o trionfo, ma io dico le passeggiate a Milanello io e lui, tutti soli, in cui si parlava con grande intimità».

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