Paolo Maldini, "ecco le sue colpe": la soffiata di Biasin sul licenziamento
Non c’è un bel modo per separarsi. Oddio, forse l’hanno trovato Paolo Bonolis e Sonia Bruganelli, ma questa è un’altra storia. Qui si parla di calcio, anzi no, di una storia lunga decenni - quella dei Maldini e del Milan - interrotta a sorpresa il 5 giugno del 2023 (ieri l’altro). Era dal 1978 che almeno un componente della dinastia era presente in società tra scrivania e campo, ma questo è un dato buono per le statistiche.
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La “ciccia” dice altro: la proprietà americana del Diavolo se ne fotte del romanticismo, delle lamentele, dei tweet e delle minacce dei tifosi vip («no agli abbonamenti!») e pensa ai freddi numeri, ai risultati, al fatturato. Oh, non che Maldini non abbia fatto bene, ché con lui in plancia non solo è arrivato uno scudetto ma pure una semifinale di Champions. I conti? Son migliorati assai se è vero come è vero che quest’anno il club sette volte campione d’Europa chiuderà il bilancio con un bel “più” (raro esempio di buona gestione). E allora?
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E allora la verità è che gli americano sono suscettibili come e più di noi. Non hanno gradito il mercato della passata sessione estiva- quello dei De Ketelaere e degli Origi, per intenderci -, ma soprattutto si sono stufati di dover avere a che fare con un dirigente non avvezzo al compromesso e ai sorrisi di facciata. Maldini è il Milan, lo sa lui e lo sanno tutti, e “il Milan” non si mette a trattare neanche col sciur padrun, colui che caccia il grano. Anzi, lo rimbrotta pubblicamente nel post derby («Sarebbe stato più semplice andare su un giocatore come Dybala. Ma abbiamo la volontà di costruire una squadra giovane. Prendendo i giovani si rischia... ci vuole tempo»), cosa che a tutti gli effetti deve aver dato il colpo di grazia.
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Ecco, sì, riuscire a dirigere un club ad altissimo livello significa prendere decisioni illuminate, ovvio, ma vuol dire anche saper fare il classico “buon viso a cattivo gioco”. E Maldini con il “cattivo gioco” non ha mai avuto alcun rapporto.
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