Spalletti e Mourinho, vinco e me ne vado: come stravolgono la Serie A
Gli allenatori di massimo livello hanno imparato a dire addio sul più bello. Una volta non era così, il José Mourinho che lasciava l’Inter nel 2010 dopo aver vinto il triplete era un’eccezione alla regola perché, quando arrivavano al massimo, i mister usavano il credito guadagnato per chiedere più soldi e giocatori ancora più forti. Mou è stato un innovatore. Lasciando all’apice di ogni avventura, la società successiva non era mai un ripiego ma sempre un upgrade. Luciano Spalletti, attento osservatore, ha imparato dal suo amico special. Non appena ha vinto lo scudetto, ha pensato di dover lasciare Napoli. È un controsenso se si pensa all’amore della piazza nei suoi confronti, ai margini di crescita di una squadra ancora giovane (nessun trentenne tra i titolari) e alle motivazioni, se è vero che la Champions e la Coppa Italia potrebbero decorare un eventuale secondo tricolore. Ma, se visto dal punto di vista del mister, l’addio è perfettamente logico. Replicare un’annata come questa è difficile e diventerebbe impossibile in caso di cessioni di Osimhen e Kim, perché non sempre riesci ad acquistare Osimhen e Kim sul mercato. In più, Spalletti ora è finalmente un allenatore da scudetto, per cui riceverà proposte che anni fa di sicuro non avrebbe ricevuto, anche da club stranieri. Avendo 64 anni non può più temporeggiare, se vuole provare esperienze inedite.
«NESSUNA ALTRA SQUADRA»
De Laurentiis dice che il suo ormai ex mister «ha chiesto un anno sabbatico» e Spalletti, ieri a margine di un evento a Coverciano, ha confermato: «Starò fermo un anno, non allenerò altre squadre». Il mister avrà anche bisogno di riposo ma i due anni di ritiro post-Inter lo hanno indotto ad aggiungere un’appendice alla strategia del vinco-e-vado: fermarsi per osservare il panorama delle panchine che, nel giro di pochi mesi, viene ribaltato. Basti pensare alla stagione che sta per terminare: Bayern, Chelsea (annunciato Pochettino, biennale più un annodi bonus) e Tottenham hanno rotto con i tecnici a stagione in corso e altre potrebbero farlo nei prossimi giorni. Anche in Italia, vedi la Juventus o la Roma.
Già, la Roma, perché Mourinho sta riproponendo il finale della storia. Se nel 2004, pochi giorni dopo aver vinto la Champions con il Porto, banchettava sullo yacht di Roman Abramovich, nel 2010 non tornò a Milano con i suoi ragazzi per non cadere nella tentazione di restare all’Inter. Ora si è fatto squalificare per l’ultima di campionato contro lo Spezia, guarda caso all’Olimpico: un modo per non farsi vedere e tamponare i sentimenti in caso di successo a Budapest. La finale di domani diventerebbe l’ultima partita alla guida della Roma, una perfetta uscita di scena. Il portoghese ha ancora un anno di contratto con i giallorossi, come Spalletti con il Napoli, ma non sarebbe un problema: la società risparmierebbe circa 15 milioni di ingaggio e le alternative non mancano. Anche Mourinho in cuor suo pensa che l’eventuale successo in Europa League sia l’apice per questa rosa e che nemmeno in caso di qualificazione alla prossima Champions, conseguente al successo contro il Siviglia, il livello si alzi.
Anzi, crede che anche la stessa finale sia inarrivabile il prossimo anno e non avrebbe più motivazioni per riprovarci. In più, un po’ come Spalletti, si è riabilitato ad alti livelli in questi due anni. Non ha proposto un gioco innovativo ma ha dimostrato che il suo può portare risultati anche in questo nuovo decennio. Il Psg pare essere d’accordo. Non è un caso che gli allenatori che si aggrappano alla panchina siano quelli che hanno fallito. Vedi Klopp che dichiara di «non volere un anno sabbatico ma, anzi, di voler restare» dopo aver ricaricato le batterie in estate e Simeone che non pensa di lasciare l’Atletico. I cicli di entrambi potrebbero essere finiti, invece sono loro ad allungarli. Avessero vinto, probabilmente sarebbe stato il contrario.