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Pelè, il gol più bello della storia è quello sbagliato

Tommaso Lorenzini
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Nel web intasato di apologie su Pelé, vergate a volte con sincera empatia, molte altre per lasciarsi anche solo lambire dalla luce di O Rei per farsi belli, tutti celebrano l'affinità elettiva del mito brasiliano con il gol, ma forse la migliore manifestazione di quello che ha rappresentato Pelé è un non-gol.  Guadalajara, 19 giugno 1970, semifinale Brasile-Uruguay (3-1 alla fine): Tostao spedisce un pallone in verticale in quello che sembra campo deserto ma sul quale sta per sorgere una cattedrale.

 

 

 

Pelé arriva come un treno lanciato, è l'unico fra i quasi 60mila dello stadio Jalisco a capire che per controllare il pallone deve abbandonare il pallone. Lo fa, aggira il portiere Mazurkiewicz con quello che è stato definito “il dribbling metafisico”, recupera la sfera pochi metri oltre e calcia a porta vuota, girandosi in una capriola. La palla sfiora il palo ed esce, ma per tutti è gol, sulle tribune lo celebrano come tale. Solo ora hanno capito, hanno appena assistito alla resa plastica del “Teorema Pelé”, il Verbo di quel ragazzo che vedeva “prima”, che inventava calcio anche là dove non sembrava poter essere possibile.

 

 

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