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Mihajlovic? "Quando lo incontravi nei corridoi in ospedale..."

Leonardo Iannacci
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Nei corridoi del reparto di Ematologia dell'Ospedale Sant' Orsola di Bologna, lo incrociavo spesso e la scena era la stessa: mostravo la mano con pollice, indice e anulare alzati nel segno del saluto serbo e l'uomo di Vukovar rispondeva con un beffardo «ohi, giornalista...». Poi, serio: «Tutto bene?». «Sì, la terapia procede, ma ci vedremo una volta tanto fuori di qua?». E Sinisa: «Chissà, Bologna è piccola». E filava via. Tra le braccia di Arianna. Sua moglie. Il destino ci fece incontrare, tempo dopo, in un'osteria bolognese di gucciniana memoria. Mi invitò al tavolo per finire la serata davanti una birra. Certe cose, evidentemente, uniscono davvero, come fossero le trincee di una guerra. Raccontarsi aiuta, riscalda.

In quella serata bolognese Mihajlovic era in forma, amava prendere e prendersi in giro: «Sai cosa diceva Boniperti di voi giornalisti? Siete un male, seppur necessario...». Parlava, Sinisa, parlava e parlava quella sera. Di andare a letto per rigirarsi tra le lenzuola non aveva affatto voglia. Spostava il discorso sempre sul calcio, ne adorava profondamente il mondo, gli uomini, le storie, gli aneddoti da spogliatoio, i difetti e i segreti. Anche quelli più maliziosi.

 

 

 

IN EMATOLOGIA

Capita, nel romanzo di una vita, di fare conoscenza con qualcuno persino in un ospedale. È accaduto al sottoscritto che, da quei «ciao» ha intrecciato con Mihajlovic un originale rapporto. Non di amicizia, non c'è nulla di più vergognoso dirsi amico di qualcuno senza esserlo veramente. Piuttosto, cameratesco. Perché eravamo in Ematologia spesso. Lui ricoverato per curare quella leucemia contro la quale ha lottato sino all'ultimo giorno, io per i day-hospital causati da una roba analoga che mi permette, però, di essere ancora qui a raccontarvi il "mio" Sinisa. Una quercia che ho conosciuto nei giorni un cui le foglie del corpo se ne stavano andando lentamente e inesorabilmente, un uomo diverso da quello che tutti conoscevano: magro e provvisorio, iroso in alcuni drammatici momenti della terapia, e con debolezze che venivano a galla. Ma un tipo dannatamente vero, capace di bruschi litigi e di altrettante dolci riconciliazioni.

Sulla leucemia, con me, non faceva lo spavaldo e si lasciò andare solo una volta: «È una bestia cattiva sai, durissima. Ma devo avere fiducia nei medici e non posso mostrare troppa la paura. La paura c'è, esiste. Quando giocavo, sentivo a volte qualche farfalla nello stomaco ma non potevo mostrarle ai compagni nè, soprattutto, agli avversari. Tantomeno dopo, quando allenavo. Ringhiavo ai miei giocatori e stavo con il petto in fuori perché sono fatto così. Sono uno nato a Vukovar, di padre serbo e mamma croata. Per questo la leucemia l'ho affrontata dicendo di volerla attaccare».

 

 

 

PRIMA TERAPIA

Il suo coraggio di avere paura affiorò al termine della prima terapia che lo riportò alla luce da un tunnel oscuro, susseguente a un delicato trapianto di midollo spinale. Pianse, quel giorno, in una conferenza stampa che scosse Bologna e l'Italia tutta. Non lo aveva mai fatto prima davanti ai giornalisti ma, frenando temporaneamente la terribile malattia, si era reso conto di essere diventato una sorta di eroe dei nostri tempi perla gente comune che stava curando leucemie e linfomi nei reparti dell'ospedale Sant' Orsola, sotto le direttive della dottoressa Bonifazi o del professor Zinzani. «Puoi togliere un ragazzo da Vukovar ma non Vukovar dal cuore di quel ragazzo», ci disse adattando un detto sudamericano sui barrio di periferia.

Se richieste, amava raccontare le sue vittorie di campo. Come calciatore della Stella Rossa di Savicevic, Stojanovic e Jugovic, e poi di Sampdoria, Roma, Lazio e Inter, Mihajlovic è stato un asso: ha vinto scudetti, trofei vari e anche una Coppa dei Campioni con la Stella Rossa a Bari, nel 1991, poi bissata da un'esaltante Coppa Intercontinentale. Da leader difensivo ha indicato ai compagni più giovani come si flirta con le punizioni, senza mai essere imitato al meglio: «Le tiravo di sinistro e in modo più diretto rispetto ai rigori, facevo più gol», amava ricordare a noi pennivendoli. «Certe volte dico ai miei giocatori di restare una mezzoretta in più al campo per migliorare le punizioni ma nessuno mi dà ascolto. Così, quando sono in partita e provano a tirarle, il pallone finisce sul tetto del santuario di San Luca, là sui colli».

Da allenatore giramondo ha sempre fatto bene nel primo anno di panchina a Catania, Fiorentina, Milan (dove lanciò il sedicenne Gigio Donnarumma), Sampdoria, Torino e Bologna, perdendosi un po' in quelli successivi. La Juventus lo adocchiò per il dopo Antonio Conte, per poi preferirgli Max Allegri. Non ebbe successo alla guida della nazionale della Serbia e stabilì un curioso record quando venne chiamato ad allenare lo Sporting di Lisbona: nove giorni di panchina e, poi, un brusco addio per accordi non onorati da parte del club lusitano. Mai fare una cosa simile a un serbo di scena. Una stretta di mano vale di più di un contrattoper gente come Sinisa, avrebbero dovuto saperlo nella terra del fado.

SERBO E MAI SERVO

Uomo di destra, serbo e mai servo e quindi libero di dire quello che pensava, Mihajlovic è stato coinvolto in controversie politiche non comuni per un uomo di calcio, mondo solitamente cioccolatizzato e ipocrita nel quale nessun dice quel che pensa. Sinisa arrivò a dedicare un necrologio a Zeliko Raznatovic, ultrà della Stella Rossa ma anche criminale serbo. Di Radko Mladic, generale accusato di genocidio, disse: «È un guerriero che combatte per il suo popolo». E del governo di Milosevic: «Nel momento in cui la Serbia viene attaccata, difendo il mio popolo e chi lo rappresenta».

Fedele a tali dogmi di vita, condivisibili o meno, ha sempre praticato e traslato la sua vita e il suo calcio: si è sempre difeso attaccando. «Era un leone», lo ha definito ieri Giorgia Meloni. Questo era Sinisa Mihajlovic, rapito in cielo giovane come gli eroi nell'epos ellenico, piegato da quella leucemia mieloide acuta che lo ha tormentato per 42 lunghi mesi, disarmandolo giorno dopo giorno. Lo piangono la moglie Arianna, i cinque figli, mamma e fratello, gli amici veri e coloro che ammirano le persone libere e tutte di un pezzo, a qualunque credo politico esse appartengano. Di Mihajlovic porterò sempre con me il ricordo di quei giorni nei corridoi di Ematologia, e del suo coraggio di avere paura. Le tre dita della mano, ben aperte, sono oggi rivolte al cielo nel credo socio-religioso della filosofia serba: Sloga, Srbina, Spasava. Addio Sinisa. 

 

 

 

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