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Sinisa Mihajlovic e la leucemia, la dottoressa: "Mai vista una roba così"

sabato 17 dicembre 2022

2' di lettura

"La malattia più aggressiva che io abbia mai visto". Sinisa Mihajlovic è morto poche ore prima. E la dottoressa Francesca Bonifazi, direttrice del programma Terapie Cellulari Avanzate dell'Irccs Policlinico di Sant'Orsola di Bologna che aveva in cura l'allenatore serbo malato di leucemia mieloide da 3 anni, non nasconde il dolore e l'ammirazione per il mister.

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"Sinisa io l'ho seguito fino alla fine - spiega la dottoressa alle agenzie -, per me è stato un paziente perfetto, con una grande personalità e al tempo stesso con la capacità di affidarsi totalmente. Aveva una malattia molto brutta, tra le più aggressive che io abbia mai visto. Il messaggio che ha dato a tutti noi, il suo grande insegnamento, è il coraggio di andare avanti. Il coraggio di non aver paura di affrontare qualcosa che non si conosce, di sapersi affidare, di lottare senza temere il dolore. Ha sofferto molto, ma lo ha fatto con grande dignità. E il coraggio lo prendevamo insieme, ce lo davamo reciprocamente".

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Miha ha scoperto di avere la leucemia nell'estate 2019, quando era arrivato sulla panchina del Bologna da pochi mesi e aveva già centrato la salvezza, un piccolo miracolo sportivo. Da quel momento, non ha mai mollato: tra trapianto di midollo, pesantissimi cicli di chemioterapia e recidiva, ha continuato a lottare tornando alla vita di tutti i giorni, quella del "suo" spogliatoio, fino all'esonero dello scorso settembre deciso dal club rossoblu in circostanze mai del tutto chiarite. Bonifazi ha seguito il decorso di quel male che, alla fine, ha avuto la meglio sulla "voglia di vivere di Sinisa". "Pur di vivere - racconta con commozione la dottoressa - avrebbe affrontato qualsiasi dolore, qualsiasi sofferenza. Non voleva lasciare la sua famiglia, che amava sopra ogni altra cosa". E la famiglia, la moglie e sei figli, hanno parlato non a caso di morte "prematura e ingiusta". "Il calcio era il suo mondo, certo - aggiunge Bonifazi - ma la sua famiglia era il suo ossigeno".

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"Per me oggi è morto non solo un paziente, ma anche un amico. Io dico sempre che la malattia più brutta è quella che si affronta da soli. Il suo male era cattivo, resistente a tutte le terapie, ai trapianti, però ha avuto attorno una serie di relazioni di affetto per cui non è mai stato solo".

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