Julio Velasco: "Vi racconto la mia vita da Calimero di successo"
«Quando arrivai in Italia, a Jesi, ad allenare la squadra di pallavolo della città, era il 1983 e il mio stipendio era di 6mila dollari all'anno. Avevo 31 anni e il fatto di guadagnare poco non mi preoccupava minimamente perché, sin da bambino in Argentina, sono stato abituato a vivere con poco e facendo grandi sacrifici».
Chi parla è Julio Velasco, il grande allenatore di pallavolo argentino con cui è iniziata la leggenda della "generazione di fenomeni", i ragazzi del volley italiani vincitori di cinque World League, tre titoli europei, due mondiali e un argento olimpico. Julio Velasco nasce in una famiglia di una «classe media-povera»(così la racconta nella nostra intervista) nella città di La Plata, quasi 800mila abitanti, a 60 chilometri da Buenos Aires, in Argentina. «Mia madre era una professoressa di inglese e noi eravamo tre fratelli rimasti tutti orfani di padre molto presto. Ho il ricordo preciso dei sacrifici che mia madre dovette affrontare per renderci una vita dignitosa e permetterci di studiare però, seppur tra mille fatiche, ci ha sempre insegnato l'educazione e il rispetto, due caratteristiche a cui mai io ho abdicato».
E il giovane Julio Velasco che ragazzino era?
«Ero molto vivace e anche un po' casinista, al contrario di mio fratello più grande che rappresentava il figlio perfetto: studioso e sempre ligio al dovere».
E il fatto di essere un po' un "Calimero" l'ha fatta soffrire?
«Certamente, ma è stato fondamentale per spronarmi a migliorarmi e a mettermi in gioco: anche io volevo dimostrare a mia mamma che ero bravo e capace di guadagnarmi la sua approvazione. Sin da ragazzino sono stato sempre dotato di una grande forza di volontà e capacità di cambiamento».
Caratteristiche che le sono servite per i suoi successi sportivi e professionali?
«Assolutamente si, la capacità di cambiamento mi è servita per affrontare complessivamente la mia vita e le sfide che questa mi ha messo di fronte».
Suo fratello è stato sequestrato dal regime militare e per qualche tempo è diventato un desaparacidos. Cosa ricorda di quel momento?
«Erano gli anni dal 1976 al 1981, quelli del colpo di Stato del generale Videla ai danni di Isabelita Perón. Furono anni terrificanti in cui, du Julio Velasco, argentino di La Plata, poco lontano dalla capitale Buones Aires, ha 70 anni. Da più di trenta, però, fa parte della storia dello sport italiano. Arrivò per allenare la squadra di pallavolo di Jesi, poi fu un succcesso dietro l'altro. Fino alla leggendaria squadra di "fenomeni", quella di Zorzi e Lucchetta e Giani e Bernardi e tutti gli altri, e ai grandi trionfi: cinque World League, tre titoli europei, due mondiali e un rante il regime militare chiamato "processo di riorganizzazione nazionale", vennero uccisi e torturati circa 30mila desaparacidos, e fu qualcosa di così spaventoso dal punto di vista umano e morale che in realtà mai in famiglia abbiamo superato. In quegli anni venne sospesa la Costituzione e sciolto il Parlamento, sostituito da un'assemblea di esperti conniventi e militari, mentre il governo fu messo nelle mani della Giunta militare, costituita dai rappresentanti delle varie forze armate, con a capo Videla che fu nominato presidente dell'Argentina».
Cosa accade a suo fratello?
«Il meccanismo era sempre lo stesso: gli arresti avvenivano molto spesso con modalità da "rapimenti": squadre non ufficiali di militari arrivavano con una Ford Falcon verde scuro senza targa, la cui sola vista suscitava il terrore, e piombavano nelle case in piena notte, sequestrando a volte intere famiglie. L'assoluto mistero sulla sorte degli arrestati fece sì che anche le famiglie delle vittime tacessero per paura. La conseguenza di queste modalità fu che nella stessa Argentina per lungo tempo il fenomeno rimase taciuto, oltre che totalmente ignorato nel resto del mondo. Una volta arrestate, le vittime erano rinchiuse in luoghi segreti di detenzione, senza alcun processo, quasi sempre torturate, a volte per mesi, e solo in rari casi, dopo un processo sommario e senza alcuna garanzia legale, gli arrestati vennero rimessi in libertà mentre gli altri buttati in fosse comuni o gettati nell'oceano Atlantico. Sempre accadeva che, sotto tortura, qualcuno parlasse facendo dei nomi di altri con il regime rendendo possibile, attraverso la delazione, altre violenze su nuove persone. Io so che quando le forze militari entravano in casa ti chiamavano per cognome e ti portavano via; per questo motivo non saprò mai se il bersaglio fossi stato io, che ero un militante dell'Università o Louis».
Lei cosa fece?
«Io ero già a Buenos Aires e sono stato fortunato perché nella metropoli era più semplice nascondersi. Per fortuna dopo un mese e mezzo mio fratello tornò a casa, ma quella ferita, profonda e violenta, non si rimarginò mai né per lui né per tutta la nostra famiglia».
Lei arrivò in Italia allo Jesi, ma solo dopo due anni andò ad allenare la squadra simbolo del volley italico: la Panini Modena.
«Fu una grandissima sorpresa per me, anzi, posso ammettere che se fossi stato io nei panni della dirigenza emiliana non mi sarei scelto. Ma andò subito bene perché al primo anno vinsi immediatamente lo scudetto, e da lì partì tutto».
Oltre ai successi nel mondo della pallavolo, lei è anche stato dirigente di due grandi realtà calcistiche: la Lazio di Cragnotti e l'Inter di Massimo Moratti. Similitudini e differenze tra queste società?
«La Lazio, con il presidente Cragnotti, era una società che si stava costruendo in quel momento, mentre l'Inter di Moratti era già una società formata e strutturata.
Entrambe avevano in comune due presidenti mecenati».
Che esperienze sono state?
«Per me molto importanti e formative, innanzitutto perché ho capito ciò che non amavo fare. Io sono un tecnico puro e tutto quello che riguarda anche la politica dei rapporti è lontana dal mio modo di essere. Inoltre, ho imparato che il calcio è un mondo, anzi una azienda, complessa e molto più articolata di tante altre».
Perché dice questo?
«Perché ogni cosa decisa in una società di calcio diventa di dominio pubblico, tutto esce sui giornali, ogni scelta viene vista e commentata da migliaia di persone che, pur non essendo azionisti, si sentono in diritto sempre di giudicare provocando una pressione davvero unica».
E la differenza tra un calciatore e un pallavolista?
«Il calciatore è un giovane che deve gestire tantissime cose in più che un pallavolista non ha la necessità di affrontare. Spesso si criticano i calciatori per alcuni comportamenti sopra le righe: mi chiedo a tal proposito come avrei reagito io, a vent' anni, ad essere un idolo delle folle che guadagna tanti milioni di euro. Credetemi, si fa presto a giudicare, ma sarebbe necessario prima capire».
E secondo lei la nostra è una società per giovani?
«Secondo me, quando si arriva a dare delle definizioni generalizzate e semplicistiche, si commette un errore. Nella nostra società ci sono esperienze di giovani positive ed altre negative, ma questo non riguarda l'età (abbiamo giovani straordinari e persone adulte banali), e purtroppo troppo spesso su questi temi passiamo da un eccesso all'altro creando due estremi forvianti. Una riflessione va fatta, per esempio, su cosa è cambiato tra la mia giovinezza e oggi. Io ho vissuto gli anni Sessanta della rivoluzione giovanile, dove non si voleva rimanere come i genitori e si passava direttamente dall'essere ragazzini a diventare uomini. Oggi gli adolescenti hanno magari più alternative, ma queste generano maggiori incertezze che in passato. La stessa velocità della società e della cultura rende sempre il mondo reale e delle regole mai aggiornato. L'Italia ha come caratteristica di essere un po' più conservatore di altri Paesi, anche nello sport».
In che senso?
«Le faccio un esempio. Se il rigore ai Mondiali di calcio del 1994 nella partita Italia-Brasile invece che sbagliarlo Roberto Baggio, allora trentenne, l'avesse tirato e sbagliato un giovane di vent' anni, avrebbero dato del matto all'allenatore e avrebbero detto che era colpa della giovane età. Con un trentenne esperto, invece, si dice semplicemente che succede. Generalizzare è sempre sbagliato. L'essere giovane non è di per se un requisito per fare le cose bene ma non deve essere nemmeno un pretesto per non rendere possibile sperimentare. Spesso ciò che alimenta un giudizio non benevolo a priori sui giovani è solo l'invidia di non esserlo più».
Qual è il segreto per avere successo nello sport?
«Un misto di genetica e capacità di apprendimento. Una caratteristica sola di queste due non rende possibile lo sviluppo di un atleta di successo». Lei, Velasco, ha allenato tanti atleti: c'è qualcuno che le ha lasciato qualcosa di più nel cuore? «No. È come se ad un padre con otto figli si chiedesse quale è il preferito. Penso sia impossibile rispondere».