Felice Gimondi, Vittorio Feltri: tra i più grandi grazie... alla moglie
Una volta è successo che un uomo qualunque, che di mestiere guidava dei camion con sei o anche otto ruote e sul suo camion guardava il mondo da un metro e mezzo più in alto, abbia avuto un figlio cui di ruote ne bastavano due, sottili sottili, che gli tiravano fango sulla faccia, e tutti sapevano il suo nome. Il figlio non trasportava merci, ma le cose ugualmente pesanti e ingombranti che porta sulle spalle un campione: talento, sudore, tenacia, solitudine, infine gloria. Sto parlando di Felice Gimondi, bergamasco, ciclista, vincitore per tre volte del Giro d'Italia (nel 1967, 1969, 1976), del Tour de France nel 1965 - l'anno prima aveva conquistato il Tour de l'Avenir, corsa francese per gli Under 23 - e della Vuelta a España nel 1968. Ho scritto «bergamasco» come primo aggettivo, non a caso: ho deciso di raccontare di Gimondi perché è uno sportivo memorabile, certo, 81 vittorie in quattordici anni di carriera, ma anche perché i bergamaschi si commuovono per tre cose: Papa Roncalli, l'Atalanta, e Gimondi. Nato nel settembre del 1942 a Sedrina, a quindici chilometri dal capoluogo orobico, Felice è il secondo di tre figli. La mamma faceva la postina, pedalava su e giù per la montagna - ché Sedrina, un comune che ora conta 2000 abitanti o poco più, è proprio all'imbocco della Val Brembana ed è già montagnoso - e il babbo aveva una piccola impresa di trasporti con i cavalli: passò dieci anni in Brasile, poi tornò in Italia e cominciò con i camion: il primo, racconta Gimondi, era un BL che andava a legna, con la cisterna su un lato.
LA PRIMA BICICLETTA
Il papà compra a Felice la prima bicicletta come premio per essere stato promosso in terza elementare. Era una «Ardita», rossa: «Avevo sette o otto anni. Ero così contento che la inforcai subito, ma caddi e mi ruppi un dente». Come esiste la fortuna dei dilettanti, un caso di sfortuna dei campioni. Ma la prima bici vera, da corsa, arriva a 16 anni. Come nella maggior parte delle famiglie, in quei tempi di soldi non ce ne sono granché e allora il padre promette al secondogenito che se l'avesse accompagnato a fare una consegna nel cremonese (il trasporto era di sabbia del Po, allora non si usava il gesso per costruire le case) e se avesse ricevuto subito il denaro - era un cliente che non pagava mai - avrebbe fatto l'acquisto tanto desiderato. Al ragazzino andò grassa: il cliente saldò 30.000 lire e Felice ebbe la bici, una Maffioletti usata. «Lasciai gli zoccoli in mano a mio padre, saltai in sella e pedalai a piedi nudi fino a casa. All'inizio non arrivavo nemmeno ai pedali e allora mettevo una gamba di traverso in mezzo ai tubi del telaio per poter pedalare».
In realtà, Felice «correva» già da un po': capitava spesso che sostituisse la madre nel lavoro di postina e percorreva le strade sterrate della Val Brembana su una bici da donna per consegnare lettere, pacchi, cartoline. Fu una palestra formidabile. Il telaio allora pesava 15 chili, e in più c'era il portapacchi. Così, con le gambe forti da postino di riserva, il giovane Gimondi entrò nella Sedrinese, una piccola società con cinque o sei corridori, «dove non c'era pressione di fare risultato ma ci si divertiva molto» racconta «e ognuno faceva la sua corsa». Ha 22 anni quando diventa professionista, vince a sorpresa il Tour de France: non avrebbe nemmeno dovuto correre e pensava di puntare, al massimo, alla maglia bianca di miglior giovane. Arrivò alla gara sostituendo Battista Babini, come gregario di Vittorio Adorni, suo compagno di squadra. Ovvero, avrebbe dovuto aiutare Adorni a vincere, che quell'anno, il 1965, se la vedeva con il favoritissimo francese Raymond Poulidor. Gimondi aveva una bici color del cielo, una Chiorda marchiata Magni («Ci vinsi anche la Roubaix e il Lombardia» racconta), e una forza esuberante, spregiudicata. Mai si era visto un giovane, uno appena arrivato, andare in fuga da solo. Dopo la terza tappa non mollò più la maglia gialla: a un certo punto Adorni dovette ritirarsi per un'intossicazione alimentare e i piani finirono stravolti.
Gimondi resistette a Poulidor sul Mont Ventoux e vinse due tappe a cronometro, che gli valsero la vittoria al suo primo tentativo. A portare a casa quell'impresa, prima di lui, c'era riuscito solo Fausto Coppi. E così, il giovane di Sedrina che avrebbe dovuto correre solo la prima delle tre settimane del Tour - il padre lo aspettava a casa perché all'epoca Felice lavorava con lui divenne il quinto italiano nella storia a vincere la Grande Boucle. Nel frattempo, Gimondi si era sposato con una ragazza che aveva conosciuto in Liguria, a Diano Marina, in vacanza, prima di diventare famoso. Tiziana Bersano è nata in una famiglia di albergatori ed era abituata alle discoteche, a stare in mezzo a gente in ferie, e ha 19 anni quando si ritrova a Sedrina. «Un incubo» dice del suo primo periodo bergamasco; e «disastroso» il suo primo impatto con gli «indigeni». «Il primo ricordo che ho di Sedrina è una panchina in pietra su cui erano sedute delle signore vestite di nero, con dei vestiti luuuunghi e neri...». Felice sostiene che metà delle sue vittorie sono merito di Tiziana, ed è vero: hanno passato la vita insieme, mai si è sentito un pettegolezzo su di lei o su di lui, innamoratissimi l'uno dell'altra («Per me andava bene lei, e basta»), con due splendide figlie, Norma e Federica. La prima delle due, Norma, avrebbe avuto la voglia e le capacità per seguire le orme del padre: «Sono stata io a impedirle di fare l'agonista. Volevo che studiasse. "Studia che è meglio, il ciclismo quanto ti dura?" le dissi» racconta Tiziana. «Però lei è un'atleta, ha uno stile perfetto, una bella postura. E poi ha grinta».
CARATTERE BERGAMASCO
Tiziana, quindi, è la prima persona, oltre a Gimondi, che ha fatto grande Gimondi. La seconda è quel bandito di Eddy Merckx quel belga, considerato il più grande, il ciclista più completo di tutti i tempi. Lo chiamavano «il Cannibale», tanto era cattivo (Vittorio Adorni, che corse in quegli anni, ha raccontato che Merckx era competitivo anche quando partecipava a una gara insignificante: se c'era un traguardo parziale con un salame come premio, «lui faceva la volata per vincere il salame»), e Gimondi, che invece era un campione gentile, psicologicamente agli antipodi, se lo trovò sempre tra i piedi. «Ho dovuto correggere il mio modo di essere, il mio modo di correre. Prima non prenderle e poi, se possibile, dargliele. Perché era dura dargliele, a quello lì.» Certamente una sfortuna, ma fu anche una delle sfide più appassionanti della storia del ciclismo: «Lottavamo sempre con il coltello tra i denti» sintetizza Felice. «La nostra generazione ha reso il ciclismo epico e leggendario. Abbiamo corso insieme tanti anni (dal 1964 al 1978, ndr) e sono stati annidi battaglie».
Insomma, Gimondi per noi era stato il più grande di tutti, finché non è arrivato quel belga a rovinarci la festa. Ai Mondiali nel 1971, Merckx gli soffiò la vittoria in volata, negli ultimi chilometri c'erano stati solo loro due. Il giorno dopo, il titolo del giornale era: Eddy Merckx campione del mondo. Gimondi batte il resto del mondo. Ma il bergamasco aveva già metabolizzato l'andazzo: nel 1970, durante un'intervista su TeleMarche, una rete francese, Felice disse: «Ritengo che Merckx mi abbia preparato alla vita, che mi abbia insegnato che non tutto è facile». L'intervistatore, lo punzecchiò: «E cioè? Battendola?». «Sì». Per questo, la gara più bella, quella che è rimasta nel cuore di tutti, èil Campionato del Mondo Tiziana ha imparato ad amarci, noi bergamaschi, testoni e chiusi e montanari («L'unica festa che Felice mi lasciava fare era quella di Capodanno, venivano anche sessanta persone»), il nostro dialetto è diventato la sua lingua e dice di aver imparato da noi l'affetto vero: «L'ho capito il giorno che hanno festeggiato i settant' anni di mio marito. Una festa bellissima. Un affetto sincero».
LA SPALLATA VINCENTE
Gimondi riesce a portarsi a ruota con Ocaña, l'altro spagnolo Domingo Perurena, il compagno di squadra Giovanni Battaglin, Zoetemelk e Maertens. Ma Merckx al quindicesimo giro fa un altro allungo, e rimangono in quattro: il Cannibale, Maertens, Gimondi e Ocaña. «Maertens era il più veloce. Sento che lui e Eddy si mettono a parlare: non capisco una parola di fiammingo, però sapevo cosa stava succedendo» racconta Felice. «Maertens gli tira la volata, ma quando Eddy gli arriva alla pedaliera, afferro che per una volta non è lui che dovrò battere». E infatti sul rettilineo finale Maertens è impegnato a lanciare lo sprint a Merckx, che però, un po' per stanchezza un po' perché Maertens aveva avviato la volata con un impeto eccessivo, perde l'attimo buono per lo sprint finale. Sulla linea del traguardo, Maertens e Gimondi si tirano una spallata, poi con un colpo di reni l'italiano mette la ruota davanti e alza il braccio al cielo. Felice Gimondi è campione del mondo. «Maertens voleva darmi una gomitata» dirà poi «ma alla fine la spallata gliel'ho data io. È stata la mia volata perfetta.» Da quel momento il bergamasco, dalla penna geniale di Gianni Brera, divenne «Felix de Mondi» (più tardi, nel 1976, dopo aver vinto il Giro d'Italia a 34 anni e dato per finito, divenne «Nuvola Rossa»). Ancora oggi nessuno è riuscito a battere il suo record al Giro: nove volte sul podio con tre primi, due secondi e quattro terzi posti. La prima cosa cui pensò, dopo la vittoria spagnola, è casa: «Mia moglie aspettava la mia bambina, Federica. È nata il 20 settembre e avevo paura di aver creato un negativo di emozioni». Ancora oggi, che non c'è più, è rimasto un mito da imitare peri ragazzini dagli 8 ai 13 anni della scuola di mountain bike fondata insieme con monsignor Mansueto Callioni, parroco di Almè (è un piccolo comune a meno di dieci chilometri da Bergamo). E da 26 anni a Bergamo si corre la Granfondo Internazionale dedicata al campione: una gara internazionale aperta a tutti coloro che, su e giù per le montagne della provincia- da Colle del Gallo a San Pellegrino Terme, fino a Costa Valle Imagna -, adorano sudare come leoni marini. Corrono nel mese di maggio, questi umani bizzarri che amano la fatica, e la città si ferma.