Matteo Berrettini, "non voglio mai più giocare a tennis": il momento più drammatico
Oggi, martedì 28 giugno, esordisce sull’erba di Wimbledon contro il cileno Cristian Garín, tentando di raggiungere la finale come successo l’anno scorso, quando cedette solo al fortissimo Novak Djokovic. Matteo Berrettini è carico dopo le vittorie di Stoccarda e del Queen’s, e pensare che quando era piccolo avrebbe potuto seriamente dire addio al tennis. Il romano aveva tre o quattro anni ed esplose mentre era al circolo: “Non voglio mai più giocare a tennis!”. Colpa del vento che lo infastidita e lo faceva sbagliare: “Mi ricordo di essere uscito dal campo, con dietro il maestro che mi urlava: ma dove vaiiiii?? — racconta Berrettini —. E mi ricordo che ho detto a mia madre, di botto: non voglio più giocare, voglio fare qualcos’altro. E sono andato a fare judo”.
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Il ritorno ai campi a 7-8 anni per merito del fratello
Il numero 11 della classifica mondiale (a gennaio, prima dell’infortunio agli addominali e dell’operazione al dito della mano destra era n.6), si è lasciato intervistare da Luca Perri, astrofisico, voce narrante dei podcast di Redbull con Chora Media, titolo «Esperimento 36»: 12 atleti che hanno accettato di raccontarsi (nella prima puntata Sofia Goggia, nella seconda Larissa Iapichino). “C’è stato un maestro delle scuole elementari importante per il mio approccio allo studio e alla curiosità — racconta — che si chiama Francesco Orvieto”. Poi a sette-otto anni, quindi dopo tre-quattro di pausa, “mio fratello (Jacopo, ndr) già giocava, nonostante lui sia più giovane di me, e mi ha detto: secondo me dovresti tornare, è divertente — aggiunge — Sono tornato al famoso tennis, e da quel momento non ho più smesso. Le nostre vacanze, da lì in poi, non sono più state vacanze”.
Berrettini: “Nel 2016 ho capito sarei potuto diventare un big”
I giorni di relax si trasformavano in una specie di Olimpiadi condensate: “Tutto il giorno non facevamo altro che giocare a tennis, fare altri sport, stare in acqua — dice ancora Berrettini — Ci svegliamo la mattina, molto spesso andavo in campo e poi tutta la giornata era spesa a cercare di fare più sport possibili e ovviamente, alla fine, a rimpinzarci di cibo ai buffet”. Il momento in cui il numero 11 ha capito che il tennis potesse diventare professione “è stato nel 2016, quando ho raggiunto la mia prima finale Challenger — racconta — Da lì è stato piano piano un crederci ogni giorno di più e ogni risultato confermava il fatto che forse alla fine avevo fatto bene a preferire il tennis al judo. Ma è stato un percorso piuttosto che un momento, una partita, una circostanza. Sicuramente è cambiato un po’ tutto dalla prima semifinale che ho fatto in un Grande Slam, agli US Open 2019. Lì le cose sono cambiate parecchio, però non mi sono sentito un campione: mi sono sentito un tennista che stava sulla strada giusta per fare delle cose belle”.
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Il rimpianto di Matteo: “Se il mondo finisse stasera…”
Dal punto di vista dei sacrifici, invece “la cosa che adesso mi pesa un po’ di più è stare lontano dalla mia famiglia per 10-11 mesi l’anno — racconta Berrettini nel podcast — che è quello che un tennista deve fare se vuole fare il tennista. Però non l’ho mai visto come un sacrificio grave. Diciamo che l’ho vista come una cosa necessaria per arrivare dove volevo arrivare, e fortunatamente la mia famiglia mi ha fatto sempre sentire il suo appoggio”. E ancora: “Al di là di quelli sportivi, il mio più grande risultato è stato quello di poter essere indipendente dal punto di vista economico rispetto ai miei genitori — aggiunge — di poter aiutare la mia famiglia, mio fratello, a inseguire i propri sogni e avere una vita migliore facendo quello che faccio e soprattutto, credo, regalare emozioni grandi alle persone che mi vogliono bene”. Con un solo rimpianto finale: “Se scoprissi che il mondo finisse stasera — conclude — probabilmente rimpiangerei di non aver detto abbastanza a mia madre o alle persone che mi stanno vicine che gli voglio bene. Ci vediamo poco per la vita che faccio, però probabilmente potrei essere un pochino più comunicativo, chiamarli un po’ di più”.