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Lewis Hamilton in Arabia: "Non corro, rischio attentati". Retroscena da Jeddah
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Non voleva correre, Lewis Hamilton. E con lui, altri piloti di Formula 1 scossi da quanto accaduto venerdì a 20 chilometri da Jeddah. Mentre loro erano in pista per le prove libera del Gp d'Arabia, i ribelli yemeniti bombardavano con droni un sito produttivo della Aramco. La guerra ha bussato anche alle porte del Circus, obbligando i protagonisti e gli organizzatori a chiedersi se fosse il caso di andare avanti con lo show. Alle 22 locali, riporta Gazzetta.it, si tiene una prima riunione: l'ex Ferrari Stefano Domenicali, oggi presidente della F1, e Ben Sulayem presidente della Fia incontrano i rappresentanti dei dieci team e dei venti piloti, le autorità locali e l'intelligence, per capire il grado di rischio. Sarebbero state garantite misure di sicurezza per i piloti, il pubblico e i media, convincendo i vertici di F1 e Fia ad andare avanti.
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I piloti, però, hanno indetto una riunione riservata alla sola loro associazione (Gpda), presieduta da George Russell (presidente straordinario, in sostituzione di Sebastian Vettel, assente per Covid). Tre ore e mezzo di confronto accesissimo, anche con Domenicali e l'altro manager F1 Ross Brawn.
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Almeno cinque piloti esprimono la volontà di non correre: oltre a Hamilton, ci sono anche Russell, Alonso, Gasly e Stroll , preoccupati per il fatto che la disputa del Gran premio non possa trasformarsi in una "cassa di risonanza" per gli Huthi, i combattenti yemeniti. Solo alle 2.30 locali, convinti dai manager, i piloti accettano di correre. In ogni caso, non il modo migliore per pensare a gomme, motori e strategie. Per la cronaca, il ferrarista Charles Leclerc continua a volare.
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