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Dan Peterson, il mito si racconta: "L'Nba? Non è più basket: perché in Italia mi diverto di più"

Leonardo Iannacci
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La vita di Daniel Lowell Peterson da Evanstone, Illinois, è un film. Allenatore di basket, uomo di televisione, genio nella pubblicità, attore, laureato in storia americana, giornalista, scrittore e amante dell'enigmistica, è un godibilissimo tuttologo. I suoi racconti, non solo sul basket, sono flash-back emotivi, un copione di Hollywood.

Coach Peterson, partiamo dal basket?
«Ok, sto analizzando le finali di Coppa Italia e noto una pallacanestro che spacca in due. Armani Milano e Segafredo Bologna sono le due favorite per la finale, ma Brescia e Tortona, nelle semifinali di oggi (18.45 Milano -Brescia Vire tus-Tortona alle 21, diretta Raisport), faranno sputare sangue a tutti. Che bello, il basket».

I due top-club italiani sono guidati da altrettanti top-coach, Messina e Scariolo, giusto?
«Corretto. In 35 anni Ettore e Sergio hanno rappresentato al meglio la vostra fantasia nel basket. Hanno allenato e vinto ovunque, anche nell'Nba nelle vesti preziose di assistente coach. Sono i due fari del basket italiano». Il giocatore migliore del campionato? «Teodosic, un artista. Milos, per me, numero 1».

La NBA non la eccita più come un tempo, vero?
«Io raccontavo in tv l'NBA dei Lakers di Magic Johnson e dei Celtics di Larry Bird: gioco pazzesco, grandi campioni, rivalità leggendarie. Oggi vedo soltanto tiri da tre, uno contro uno, alley-oop muscolari... Non è basket».

Come è nata la sua devozione per questo sport?
«Da ragazzo. Mio padre era tenente di polizia, mia madre designer. Volevano facessi l'avvocato ma, un giorno, mi sono detto: uhm, non voglio finire dietro una scrivania. E iniziai ad allenare, non avendo il fisico per giocare».


Nel 1971, finì in Cile...
«Un'esperienza pazzesca, allenavo la nazionale cilena e imparavo lingua e costumi di quel paese. Ma, nell'agosto del 1973, ho ricevuto un'offerta per allenare la Virtus Bologna e sono partito. Per fortuna. A Santiago tirava brutta aria».

Si riferisce al Golpe del 1973?
«Lo sfiorai. Ignaro di quello che sarebbe successo, salii sull'aereo per Bologna il 31 agosto, 12 giorni prima della morte di Salvador Allende, l'11 settembre. Avevo l'ufficio a 100 metri dal suo e, soltanto già in Italia, vidi quell'inferno in tv».

Da coach di Bologna e Milano ha vinto tutto. Segreti?
«Ho avuto giocatori pazzeschi e ho cercato di rapportarmi con loro, capire quando dire qualcosa e quando tacere. Un anno, con l'Olimpia di Meneghin, D'Antoni, McAdoo perdemmo di 31 punti l'andata contro l'Aris Salonicco. Tornammo a Milano piegati in due. Non sapevo cosa dire. Passavano i giorni e stavo zitto durante gli allenamenti. Poi, prima della partita, dissi loro una cosa che sembrava banale: "Per qualificarci dobbiamo vincere di 32 punti, vi chiedo di recuperare un punto ogni minuto". Ce la facemmo».

Lei è stato protagonista della Milano da bere, non solo nel basket.
«Mi ritirai dalla panchina nel 1987, troppo stress. Iniziai a raccontare lo sport in tv e pensai: non devo insegnare nulla a chi mi ascolta da casa, soltanto parlare con semplicità come fossi in salotto con loro. In più devo metterci dentro le mie origine americane».

Un successo travolgente, diventò persino un icona della pubblicità con lo spot del Thé Lipton. Dica la verità, era davvero così buono quel the?
«Accettai di esserne testimonial perché la famiglia Peterson, a Evanstone, lo beveva da sempre. Il thè Lipton è sempre stato nella mia vita».

Vero che è stato anche un agente della Cia?
«Ah, ma solo per scherzo accettai di interpretare un agente nella fiction Coliandro, per la Rai. Recitare mi diverte».

Lei è in Italia da 49 anni, come vede ora questo nostro povero paese?
«In difficoltà, la straordinaria circolazione delle idee degli anni '70-'80 non c'è più. Avete il problema grave dell'immigrazione. E l'economia ha preso batoste tremende con l'avvento dell'Euro e con la grande crisi mondiale del 2009. Vi salverà la creatività. In fondo non siete il paese di Leonardo Da Vinci, di Armani, di Fellini?».

E la sua America?
«La vedo indebolita. Biden non è il presidente giusto. Chi comanda deve avere tre doti: carisma, intelligenza, forza. Trump le possedeva, peccato non abbia smussato alcune sue uscite. Ma era la guida giusta. Gli Stati Uniti ora mi sembrano gli Stati Disuniti al cospetto di un Putin scatenato».

Digressione sul calcio: a chi andrà lo scudetto?
«L'Inter ha preso due brutte batoste, nel derby e contro il Liverpool. Per Inzaghi le cose si sono complicate. Sapete cosa vi dico? Occhio alla Juventus. Dire Milan e Napoli è troppo facile».

Se girassero veramente un film sulla sua vita, da quale attore vorrebbe essere interpretato?
«Tom Cruise. Lo dice sempre mia moglie: almeno lui è bello». 

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