Paolo Rossi, per negargli l'Olimpico tirano in ballo il colonialismo: una polemica assurda
Hanno commesso davvero un bell'autogol di livello mondiale al Comune di Roma respingendo l'ipotesi di intestare lo stadio Olimpico a Paolo Rossi, eroe del Mundial '82: un gesto goffo, misto di provincialismo, presunzione e cultura del piagnisteo, che conferma l'incapacità della classe politica capitolina di guardare al di là del proprio naso (e del raccordo anulare) e meritarsi di amministrare la città cuore e testa d'Italia.
L'idea di onorare Pablito, caldeggiata dalla Federcalcio, una sorta di SPQR riadattato (Stadio Per Questo Rossi!), è stata rifiutata dall'assessore allo Sport di Roma Alessandro Onorato con toni e termini che ben condensano la difficoltà della Città Eterna nell'essere all'altezza del proprio ruolo e della fama passata e denunciano un fastidioso senso di rivalità nei confronti del Nord: «Intestare l'Olimpico a Paolo Rossi nasconde un approccio colonialistico alla città di Roma», ha sentenziato l'assessore, quasi che si tratti di una forma di sottomissione per l'Urbe rendere omaggio a un calciatore toscano distintosi nella sua carriera in squadre "padane" come Vicenza e Juventus. Si percepiva astio anti-settentrionale nelle sue parole, orgoglio decadente di una romanità che non vuole saperne di piegare il capo ai Galli cisalpini barbari e invasori...
Ma l'assessore, la giunta, i cittadini e i tifosi romani che appoggiano la sua posizione non si rendono conto, nella loro fatua prosopopea e nella loro sindrome di accerchiamento, che Paolo Rossi non è un simbolo di parte, non è legato solo a un'area geografica o alle squadre settentrionali in cui militò né soltanto alla Toscana che gli diede i natali e ne accolse le spoglie, ma è un patrimonio della nazione, un'icona di unità patriottica, un manifesto di gloria italiana che, a maggior ragione, dovrebbe trovare giusto tributo nella città che, per eccellenza, incarna l'italianità nel mondo. La piccineria del politico in questione sta nel ragionare a mo' di un tribuno di quartiere, che prova a difendere gli interessi della sua comunità territoriale, per quanto estesa e capitale, anziché comprendere la grandezza unificante di un campione, al di là di ogni campanilismo. Del resto, proviamo a immaginare che il Comune preferisca intestare lo stadio a un ct o un calciatore che ha allenato o militato in una delle due squadre capitoline.
Su chi dovrebbe puntare? Inevitabilmente finirebbe per optare o per un grande laziale (si pensi a Silvio Piola) o per un grande romanista (ci viene in mente Niels Liedholm, l'allenatore del primo scudetto giallorosso), scontentando una delle due tifoserie. Da sempre, si sa, la Capitale è più divisiva di Milano, dove un Meazza, cui è intitolato lo stadio di San Siro, riesce a mettere d'accordo interisti e milanisti, avendo giocato in entrambe le squadre, e dove sono molto più frequenti gli scambi di calciatori tra "cugini". A Roma invece difficilmente un campione del pallone è stato condiviso da giallorossi e biancocelesti. A chi poi obiettasse che gli stadi, in Italia ma non solo, generalmente vengono dedicati a giocatori che si sono distinti in quella città e l'hanno resa grande, si può rispondere che è una legge generale con però eccellenti eccezioni.
Si pensi allo stadio di Brasilia chiamato Mané Garrincha, in omaggio alla geniale ala destra della Nazionale verdeoro anni '60. Ebbene Garrincha non nacque né morì a Brasilia e tanto meno militò in un club della città: la sua carriera si divise tra squadre di Rio de Janeiro (Botafogo, Flamengo) e San Paolo (Corinthians). Eppure il Brasile ha reputato giusto onorarlo come simbolo patrio nella capitale. Un discorso analogo si potrebbe fare per George Best, cui è dedicato l'aeroporto internazionale di Belfast: è vero che Best ebbe i natali nella capitale nordirlandese, ma è altrettanto vero che mai giocò in una squadra del luogo; il suo talento esplose in Inghilterra, la sua fama superò di gran lunga i confini del Regno Unito. Eppure oggi viene immortalato a Belfast come emblema di orgoglio nazionale. Non è chiaro perché qualcosa di simile non possa avvenire con Pablito.
Certo, sarebbe un bello smacco per la Capitale se, a fronte delle titubanze di Roma, Milano approfittasse dell'occasione, decidendo di re-intitolare il proprio stadio all'attaccante che, dopo i due Mondiali vinti (anche) grazie a Meazza, ce ne fece vincere un terzo. Pensateci un po': "Stadio Paolo Rossi in San Siro". Non suona male e, per Milano, sarebbe un modo ulteriore per accreditarsi come capitale morale (e calcistica) d'Italia.