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Juventus in ritiro, retroscena: il pugno di ferro di Chiellini e Bonucci. E Allegri?

Claudio Savelli
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Il ritiro è cosa d'altri tempi e forse per questo ad affidarcisi è Max Allegri, allenatore che pare essersi fermato a tre stagioni fa, in un calcio che non c'è più. Gli ultimi anni di campionato pandemico sembravano aver spazzato via del tutto l'idea della clausura, sui cui benefici la letteratura calcistica è divisa: era diventato un'esigenza pratica in caso di positività di un componente del gruppo al Covid, un fatto logistico, non più un rimedio tecnico ai cattivi risultati. 

 

Max Allegri però nei due anni di pandemia non ha allenato e non è un caso che ad ordinare il ritiro alla Juventus, sei anni dopo l'ultima volta, sia proprio lui. Il precedente, poi, era stato imposto dallo stesso livornese come panacea dei mali al peggior avvio della sua storia bianconera prima di questo: dopo la sconfitta (1-0) con il Sassuolo del 28 ottobre 2015, quando dopo 10 giornate aveva conquistato appena 12 punti e ne pagava 9 alla capolista Roma, la Juve andò in ritiro. Allora servì, la squadra si diede una mossa, rimontò e vinse lo scudetto. Ma non ci sono similitudini: questa rosa non è ricca di campioni come quella del 2015, non è reduce da uno scudetto e non è appagata. È semplicemente inadeguata per gli obiettivi massimi indicati dalla storia del club. E oggi si trova a 16 punti dalla vetta. 

Se il ritiro in quel gruppo ricco di giocatori dalla spiccata personalità e dalla nobile carriera poteva muovere l'orgoglio, in una rosa priva di spirito e pervasa dai dubbi può invece essere un colpo di grazia. Suona come un promemoria di inadeguatezza, il contrario della fiducia di cui molti hanno bisogno. Di certo Allegri ha valutato i rischi quando ha proposto la clausura ai capitani Chiellini, Bonucci e Dybala, subito dopo la seduta di scarico (per gli altri tecnica, azioni veloci e possesso palla). Si sarà ricordato anche che questi ultimi erano presenti sei anni fa e sono l'eccezione che conferma la regola della personalità in rosa? Sembra infatti che non sia stato interpellato direttamente tutto il gruppo ma che la decisione sia prima passata al vaglio dei leader. Dal galeotto pullman scoperto per la vittoria europea dell'Italia al ritiro della Juve, il potere dei centrali pare superiore alla bontà delle loro prestazioni e forse è un'ingombrante ombra sul resto dei giocatori. In più ci si aspetta che sia la società a imporsi sui giocatori, a maggior ragione se si tratta della Juve, storicamente inflessibile, non il contrario. Ennesimo indizio secondo cui la dirigenza deve acquisire nuovamente credibilità interna, ancor prima che esterna. 

 

Il ritiro durerà fino a sabato quando, all'Allianz Stadium, arriverà la Fiorentina del ritrovato Vlahovic (tripletta allo Spezia), obiettivo dei bianconeri per l'attacco. Chissà se anche il 9 viola non vede l'ora di infliggere il colpo di grazia all'eterna rivale in crisi come Firenze. Prima però (domani alle 21), e sempre a Torino, gli uomini di Allegri saranno impegnati nella sfida di Champions allo Zenit, dove basterà un punto per conquistare gli ottavi con due giornate di anticipo. Sarà un ping-pong tra lo stadio e la Continassa, ma è paradossalmente in quest' ultima che si decide il futuro della Juve: il mister (che ritroviamo in conferenza Uefa alle 14.30) non rischia il posto anche in caso di sconfitte, protetto da un quadriennale da oltre 7 milioni netti a stagione che pesa per circa 70 milioni lordi al club, ma è chiamato a costruire un gioco. Si dice infatti che il ritiro serva a "compattare la squadra" o a "ritrovare lo spirito", e sono concetti su cui lo stesso Allegri continua a battere, quando in realtà alla Juve serve tutto il resto: un'idea, sia essa difensiva o offensiva, ma che sia un'idea.

 

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