Franco Baresi, "speriamo bene". La confessione di un mito: "La prima volta in cui incontrai Silvio Berlusconi..."
«Sei è un numero perfetto di per sé, e non perché Dio ha creato il mondo in sei giorni; piuttosto è vero il contrario. Dio ha creato il mondo in sei giorni perché questo numero è perfetto», scriveva Sant'Agostino ne La città di Dio. Chissà che il grande filosofo non si riferisse, con 17 secoli di anticipo, a Franco Baresi, per tutti il Numero 6, come la cifra sulla maglia da lui indossata in 20 anni di Milan e poi ritirata dal club, essendo irripetibile colui che la indossò. E come il nome dell'evento al quale lo storico capitano rossonero ha partecipato ieri al Festivaletteratura di Mantova, presentando in compagnia di Federico Buffa il suo libro autobiografico, Libero di sognare, in uscita a fine settembre per Feltrinelli.
KAISER FRANZ
Il volume è un viaggio dall'infanzia alla consacrazione, dai primi calci tirati nell'aia del suo casale in campagna e in oratorio negli anni 60, «quando giocavamo con un pallone di cuoio lucidato con la cotenna di maiale», fino ai più importanti stadi del mondo, in un percorso che lo ha portato dall'essere un piscinin al diventare Kaiser Franz (soprannome in onore di Beckenbauer). Un cammino aspro e difficile, anzi Travagliato, com' è il nome del suo paese di nascita: rimasto orfano di entrambi i genitori a 14 anni, quindi scartato dall'Inter, Franco ebbe il suo riscatto entrando nelle giovanili rossonere. «Superare quel provino fu un'ancora di salvezza». Da allora cominciò la sua seconda vita piena di trionfi, in un ruolo da ultimo uomo, quello di libero, che ne fece il primo, il più grande difensore del mondo. E lo proiettò in alto, come la sua mano destra levata a segnalare il fuorigioco, ai tempi in cui non esisteva il Var. Quegli anni di gloria cominciarono con l'avvento di Arrigo Sacchi sulla panchina del Milan. «L'anno prima il suo Parma ci aveva battuti», racconta Baresi, «ma non avevo la sensazione che il suo gioco fosse così avanzato, anzi non sapevo neanche chi fosse Sacchi. Berlusconi però ci vide lontano e capì che era l'uomo giusto». Quel Berlusconi che, presentandosi alla squadra, «ci disse che voleva sia vincere che emozionare, chiedeva un gioco offensivo, veloce, spettacolare. Io e i miei compagni ci guardammo negli occhi ci dicemmo: "Speriamo bene..."».
UNICITÀ
Nonostante i numerosi trionfi, tutta la carriera di Baresi è stata segnata da intoppi, passaggi a vuoto, dalle retrocessioni in B alla malattia al sangue che lo costrinse per un periodo sulla sedia a rotelle fino a quell'infortunio al menisco alla seconda partita dei Mondiali di Usa '94, cui seguì un recupero miracoloso in 25 giorni. «Ancora il giorno prima della finale Sacchi aveva dubbi se farmi giocare. Mi chiese se me la sentissi...». Baresi disputò una delle sue migliori partite di sempre nel caldo infernale di Pasadena, prima dell'errore dal dischetto fatale, insieme a quelli di Massaro e Baggio, per gli azzurri. Da lì le sue lacrime a dirotto: «Quel pianto fu una liberazione», racconta. «Avevo raggiunto una finale e fatto tutto quello che desideravo nella vita. Non avevo più paura di sentirmi debole, anzi mi sentivo forte, perché avevo dato tutto». La sua forza sul campo si può riassumere in un'attitudine "kantiana" a «intuire il tempo e lo spazio di gioco prima degli altri». Da questa intuizione innata derivava la sua velocità: «Non ero lento» dice schernendosi, «qualche recupero l'ho fatto...». Nonché la sua unicità: «Un erede di Baresi?», confida ai taccuini di Libero, «No, non esiste». Ma questa forza, fatta di gesti e non di parole, riassume anche la sua umanità. Quella che lo fa esplodere in un nuovo pianto liberatorio alla fine della conferenza. Nella sua commozione finale sta il Franco Baresi simbolo di un calcio romantico, legato al Mito della bandiera, come appartenenza eterna a una squadra ma anche come patrimonio di un'intera nazione. Una unicità che portò lo speaker di San Siro, in occasione del suo addio al calcio giocato un quarto di secolo fa, a urlare: «Baresi 6 per sempre».
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