Lionel Messi, un miliardario non può piangere: perché l'addio al Barça è una sceneggiata
Piange, Lionel Andrés Messi Cuccittini, tra le altre cose, piange mentre allude, dice e non dice e si contraddice, e soprattutto si dimentica una verità elementare dell'umano. Aut-aut. Si può percorrere qualunque scelta nella vita, persino quella che porta alla negazione della propria fede, personale, religiosa, calcistica. Non si può, però, far finta di non aver scelto. Non si possono recitare più parti nella tragicommedia dell'esistenza, e non perché sia un comandamento moralistico, ma proprio perché è materialmente impossibile. Angelo o demone, idealista o mondano, vita estetica o vita etica, diceva il filosofo Kierkegaard che intitolò la sua opera fondamentale proprio "Aut-aut".
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Nel caso di specie: bandiera romantica o miliardario coerente. Un miliardario coerente, per capirci, può benissimo salutare il Barcellona dopo 21 anni (settore giovanile compreso), 10 campionati spagnoli, 4 Champions League, 6 Palloni d'oro e i circa 800 milioni lordi di euro complessivi. Può benissimo farlo perché ritiene inaccettabile per il canone che guida le proprie azioni (il guadagno, detto col massimo rispetto liberista possibile del termine) la stretta economica della Liga e il tetto salariale imposto ai club. Ma non può anche convincersi, e convincerci, di credere allo slogan blaugrana, che appunto scandisce «Més que un club», più di un club. Ennò. Se il Barcellona è «più di un club», se il Barcellona è questione di ragione e sentimento, di anima e di epidermide, allora Messi poteva tranquillamente regolarsi come Franco Baresi e Billy Costacurta, che ad ogni rinnovo si recavano dal "dottor Galliani" e firmavano in bianco, perché la cifra era un corollario dell'essenziale, il Milan. Nessuno può rimproverare a Lionel che non abbia compiuto questo atto temerario e controintuitivo. Nessuno, però, può allora credere alle sue lacrime.
L'ESEMPIO DI IBRA
I miliardari coerenti non piangono. I miliardari coerenti fanno come ha sempre fatto quello che di Messi poteva essere il gemello del gol e non è stato: Zlatan Ibrahimovic. Imbastiscono una dichiarazione professionale con sobri ringraziamenti e amarcord di titoli vinti, la reggono col proprio carisma, e salutano. Quel che non si può reggere, è la commozione ambigua. «Mi sono abbassato l'ingaggio del 50% e mi sono allungato il contratto, ma non è bastato. Qualcuno ha detto che il club mi aveva chiesto un ulteriore sconto del 30%, ma non è vero». E allora, verrebbe da dire? «Sia io sia il club avevamo la stessa linea: continuare. Sto lasciando il club della mia vita e la mia vita cambierà completamente. Riparto da zero». No, non proprio, da 30, i milioni annui che sarebbe pronto a garantire il Paris Saint Germain, una squadra-Stato in mano agli emiri, che sproloquia ogni giorno di «calcio etico» e poi fa la raccolta di fuoriclasse gettando miliardi dall'elicottero. «Chiaro che penso a un omaggio futuro con il Camp Nou pieno. Per questa gente sono disposto a tutto». No Leo, non vorremmo riecheggiare Nanni Moretti, ma le parole sono importanti. Non sei disposto a tutto. Non sei disposto, ad esempio, alla scelta estrema, a restare gratis "accontentandoti" dei 33 milioni all'anno che secondo Forbes introiti solo dagli sponsor.
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ARTISTA E IMPRENDITORE
Se uno non è disposto all'estremo, non è disposto a tutto. È logica, Leo, e la tua è legittima, cristallina e perfino condivisibile. Hai la percezione di te stesso come artista, e la pretendi anche dal mercato (e per favore, lascia stare stare l'alibi sofistico per cui ora sei svincolato e quindi il salary cap vigente rende impossibile nuovi accordi soddisfacenti, perché se eri "pronto a tutto" eri pronto anche a risolvere l'amore della tua vita già a maggio, a gennaio, a priori). Una postura da artista consapevole, che è anche e anzitutto imprenditore di se stesso, da miliardario che dà agli zeri in serie il loro giusto valore. Una scelta che hai fatto molto tempo fa, e che esclude le lacrime. Aut-aut, Lionel, sempre.