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Andrea Stramaccioni racconta il calcio in Iran: "A Teheran sono scesi in piazza per non farmi andar via"

Claudio Savelli
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Sull'epidemia in Iran, Andrea Stramaccioni non può aiutarci. È tornato in Italia lo scorso dicembre, ben prima dello scoppio del virus. E meno male: il viaggio di ritorno è stato abbastanza movimentato dai tifosi scesi in piazza per lui. Era diventato un idolo: l' Esteghlal di Teheran andava a gonfie vele e, soprattutto, li rappresentava. «Ho appena terminato due videolezioni ai giovani allenatori di Coverciano. È più difficile parlare ad uno schermo che in uno spogliatoio».

Con il senno di poi, più facile che allenare in Iran. Mister Stramaccioni, perché l' Esteghlal?
«Mi cercarono quando allenavo lo Sparta Praga. In estate non andò a buon fine con un club di A, così il mio agente, Federico Pastorello, mi illustrò la proposta, completa e strutturata. Mi documentai: entusiasmo impressionante e calcio di buon livello. Essendo giovane, ho 44 anni, non volevo stare fermo».


Pensiamo all' Iran e immaginiamo il calcio degli Emirati, gli stadi nuovi ma semivuoti.
«Macché. È l' esatto contrario: impressionanti strutture di calcestruzzo».

Vedere per credere: recuperiamo la foto dello stadio del Tractor Sazi, nella città di Tabriz. Centomila divisi a metà sugli spalti per il "derby d' Iran". Scontri?
«Nemmeno l' ombra. Molti scenari mi hanno ricordato gli stadi della mia infanzia, gli anni '80 in Italia: sempre pieni, dall' Olimpico al Del Duca di Ascoli».

Cosa ha imparato in Iran?
«Dal punto di vista ambientale a convivere con un entusiasmo smisurato, più che in Italia. A livello calcistico, ad adeguare il metodo: in Asia ci sono meno tattica e più duelli individuali».

Dove si posiziona l' Iran?
«Calcisticamente lotta con il Giappone per il primato nel continente asiatico. Ecco perché è stato un onore».


Da allenatore a eroe nazionale, però, ce ne passa. Se lo aspettava?
«Mai, anche perché l' Iran è una nazione con più di 80 milioni di abitanti: vai a scegliere un italiano? Il mio addio è diventato un caso internazionale. Manifestazioni di piazza a Teheran, volantini e striscioni col mio volto, l' intervento della politica per cercare di ricucire. Non serve dire che alla partenza ero triste. E nemmeno commentare i motivi per cui siamo stati costretti a lasciare l' Iran (reiterate irregolarità nelle modalità di pagamento, ndr)».

L' Esteghlal è il club del governo, gestito dai funzionari politici: possibile fare calcio così?
«È una società con il 100% di partecipazione statale, i dirigenti sono espressione del Ministro dello Sport. All' inizio ho avuto difficoltà nel capirne le dinamiche, anche perché il ds che mi aveva voluto, dopo avermi visto in Europa League con l' Inter, si dimise. Alla quinta perdiamo il derby e ci ritroviamo penultimi. Erano perplessi sul nostro calcio: il 3-4-3 per loro era incomprensibile. Ma abbiamo reagito: 11 vittorie di fila, squadra in vetta dopo tanti anni. Alla fine, in sei mesi, il lavoro è stato apprezzato da tutti. Tengo stretto il premio di miglior allenatore d' Asia di novembre».

Un altro mondo, come quello attuale: il calcio cosa deve fare?
«Vivo da Roma la situazione: è giusto che il calcio passi in secondo piano».

Come ha visto da fuori il calcio italiano?
«Arricchiti dalla ricerca della qualità del gioco».

Allenatore modello, se ce n' è uno?
«Ne devo ringraziare molti: Gasperini, Sacchi, Spalletti, Ranieri, Zeman, Ancelotti, Guardiola. Mi piacerebbe uscire a cena con Allegri».

 

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