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Mennea, mito scomodo per l'ItaliaIl mondo dello sport lo celebra ma da vivo l'ha sempre odiato

Le istituzioni ora esaltano la figura di Pietro, morto a 60 anni, dopo averlo osteggiato a lungo. Un esempio? Il Coni disertò il trentennale del suo record
di Giulio Bucchi domenica 24 marzo 2013

3' di lettura

  di Alessandro Dell'Orto Quando Pietro Mennea era giovane e correva più veloce di tutti, strappandoci emozioni e applausi, era stimato e coccolato. Riverito, come si riveriscono - spesso con piaggeria e adulazione - i fenomeni dello sport che magicamente diventano bellibravibuoni. Anche se non lo sono (lui bravo e buono lo era), ma basta vincere e tutto si sistema.  Ora, a distanza di trent’anni, Pietro Mennea è tornato a essere bellobravobuono. Improvvisamente. Perché ci ha lasciati, se ne è andato. Non c’è più. Già, capita sempre così: muori e tutti si dicono tuoi amici, tutti pretendono di raccontarti, descriverti, lodarti e i difetti spariscono o - pensa che buffo - vengono addirittura trasformati in pregi, i ghigni di chi ti compativa diventano lacrime fredde, l’indifferenza di un tempo si trasforma in macabra attenzione. Pietro Mennea era bellobravobuono quando era un campione insuperabile e  lo è adesso che è diventato leggenda immortale (il feretro è stato esposto nel Salone d’Onore del Coni a Roma: non era mai successo per un ex atleta): peccato che nel frattempo sia stato messo ai margini. Dimenticato. Abbandonato dal mondo dello sport - e soprattutto dal suo, l’atletica - perché considerato personaggio scomodo. Non è un caso che le persone che gli sono state più vicine ora lo spieghino senza paura, proprio nel momento in cui c’è la corsa alla celebrazione. Sara Simeoni, 59 anni, mito del salto in alto cresciuta proprio insieme a Pietro e compagna di successi storici (entrambi oro a Mosca 1980), dice: «Perché nessuno di noi ha avuto una grande carriera dirigenziale? I nostri risultati facevano ombra a qualcuno». O ancora, sentite le parole - fortissime - di Sandro Donati, responsabile del settore velocità e mezzofondo dell’atletica leggera italiana dal 1977 al 1987 e oggi unico consulente in Italia per la Wada (l’associazione mondiale antidoping): «Mi ricordo quando pochi anni fa festeggiammo l’anniversario dei 30 anni del record del mondo di Città del Messico presso la sede di Roma dell’associazione stampa dove non era presente alcun dirigente dello sport italiano, Coni o Federazione di atletica. Pietro non ha mai sfruttato il suo nome e vorrei aggiungere che il sistema sportivo italiano lo odiava». Lo odiava. Accuse pesanti, che trovano conferma anche in tanti piccoli episodi. Come quando la Iaaf, la federazione internazionale di atletica, la scorsa estate ha celebrato il centenario: Pietro stava bene, ma nessuno si è ricordato di fargli una telefonata e invitarlo. Ma perché Mennea non ha potuto mettere al servizio di tutti il suo talento, i suoi metodi di allenamento, i suoi segreti? Perché nessuno ha trovato il modo di valorizzarlo, lui che è un mito in tutto il mondo e che ha scritto la storia dell’atletica con piedi veloci, sacrificio e cervello fine (aveva quattro lauree)? «Era scomodo, non le mandava mai a dire ed era sempre in controtendenza», ha provato a spiegare ieri Daniele Masala, 58 anni, ex compagno di Pietro. «Ha un carattere difficile», è stato ripetuto per anni da ex atleti e dirigenti. Già, solo perché Mennea era diretto nei modi di fare e nelle parole e aveva principi rigidi e incorruttibili. Non era abituato ad accettare compromessi. Si è sempre e nettamente schierato contro il doping. Per questi motivi non gli è mai stato affidato un incarico di comando, responsabilità o prestigio. E quelli che in realtà erano grandi e rarissimi pregi, venivano considerati difetti. Fino a due giorni fa. Perché ora che non c’è più, Pietro Mennea - guarda caso - è tornato a essere bellobravobuono. Ma questa volta per sempre.  

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