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Benatia ha scelto Maometto. Addio Juve per i suoi figli: bravo, non a casa nostra

di Davide Locano domenica 10 febbraio 2019

3' di lettura

 Il calcio, si sa, è un fatto di fede. Ma non è solo la fede come attaccamento alla maglia, tifo e difesa dei propri colori; è anche una fede più profonda, che ti porta a fare segni di croce appena entri in campo o ad alzare le mani al cielo dopo un gol, o viceversa a pregare Allah prima del fischio di inizio o a digiunare in campionato per via del Ramadan. Quella fede, che riguarda Dio e non il dio pallone, può indurti a fare scelte radicali, ad esempio ad abbandonare il tuo posto da difensore in una delle squadre più titolate al mondo per assumere un ruolo da defensor fidei nella civiltà in cui sei cresciuto. Da questo punto di vista, la scelta del calciatore marocchino Medhi Benatia di trasferirsi dalla Juve alla squadra qatariota dell' Al Duhail «per far crescere i miei figli in un ambiente islamico» pare comprensibile, sebbene smentisca al contempo le logiche del mercato e del buonismo multiculturale. Da un lato, essa dimostra che è possibile cambiare casacca non solo per denaro o per carriera, per ambizione o sete di vittorie, ma anche per una motivazione più intima e alta. Dall' altro, essa mette in luce l' incompatibilità dei principi islamici con la nostra civiltà, l' impossibilità di giocare e vivere in Occidente e voler mettere su una famiglia secondo la rigida educazione musulmana. A una delle due cose si dovrà rinunciare: o all' Europa o all' islam, o ai costumi del nostro Paese o alla sharia. Se vuoi educare la prole seguendo la tua religione - è la morale - fallo pure, ma nella tua civiltà di origine. RITORNO ALLE ORIGINI Al di là della questione religiosa, nella scelta di Benatia c' è anche la smentita del mito dell' integrazione tanto caro al Pd, ossia quell' idea per cui chi arriva da noi desidera restarci e adeguarsi ai nostri stili di vita. E invece, ci insegna Benatia, chi giunge da fuori prima o poi ha voglia di tornare a casa, di riabbracciare la propria patria o la propria cultura, costruendosi attorno un contesto che non gli suoni straniero, ma familiare. Non è un caso che Benatia abbia detto: «Potevo andare in club degli Emirati o dell' Arabia Saudita, ma ho preferito il Qatar perché qui giocano tanti calciatori della nazionale marocchina». Voleva rivedere volti noti, l' ex difensore della Juve, sentire voci e accenti conosciuti, non sentirsi più un emigrato (sebbene di lusso), ma tornare all' origine. E fare di quell' origine il destino suo. E dei suoi figli. Quanta differenza dall' atteggiamento di un altro celebre calciatore, Mohamed Salah del Liverpool, musulmano praticante come Benatia, ma al suo contrario intollerante verso la cultura che lo accoglie. Lo si è visto lo scorso dicembre allorché il fuoriclasse egiziano ha manifestato l' intenzione di lasciare il Liverpool qualora fosse stato acquistato il calciatore israeliano Moanes Dabour. In tal modo Salah ha creduto di poter ripetere quanto già fatto alcuni anni prima, quando militava nelle file del Basilea: nel 2013, all' andata della sfida contro la squadra israeliana del Maccabi Tel Aviv, evitò i saluti di rito di inizio partita fingendo di aver dimenticato gli scarpini negli spogliatoi; e al ritorno si limitò a dare ai calciatori israeliani un pugnetto anziché stringere loro la mano. SALAH E IL LIVERPOOL In questo suo atteggiamento Salah deve sentirsi incoraggiato dai tifosi del Liverpool che non solo lo idolatrano, ma addirittura si dicono disposti a rinunciare alla propria fede cristiana pur di compiacerlo. Uno dei loro cori recita appunto: «Se Salah segna ancora un po', divento musulmano anch' io. Seduto in una moschea, è lì che voglio stare». Come svendersi l' anima, in nome del tifo. Ecco allora la differenza. Benatia intende crescere i suoi figli alla maniera islamica lontano dall' Europa. Salah aspetta che i tifosi del Liverpool diventino musulmani e antisionisti come lui. È la differenza tra un difensore e un attaccante: uno difende (comprensibilmente) la propria civiltà, l' altro attacca (in modo sgangherato) la nostra. di Gianluca Veneziani

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