In Altre Parole, Roberto Vecchioni per attaccare il governo storpia perfino Dante
Roberto Vecchioni è un cantautore giustamente molto apprezzato. Secondo me ha scritto una delle canzoni d’amore più belle della musica italiana che s’intitola Vorrei. Ma nella sua nuova veste di intellettuale antimeloniano non solo non convince, ma certe volte deraglia pericolosamente e, per uno che ha fatto il professore e pretende di dare lezioni, tale circostanza non è affare marginale, da accantonare con un’alzata di spalle. Dunque capita che, nella puntata di sabato sera della trasmissione di Massimo Gramellini In altre parole, su La7, il Vecchioni ex cathedra, per ridicolizzare le linee guida del ministro Valditara per le scuole medie e elementari, se ne esce con una dotta citazione di Dante. E gli ignari spettatori de La7 si bevono la sua esegesi in deferente silenzio. Ecco i versi citati: «Apri la mente a quel ch’io ti paleso/ e fermalvi entro; ché non fa scienza/ senza lo ritenere, avere inteso». Come la legge Vecchioni?
«Sì certo, va anche bene imparare qualche cosa a memoria però io mi rifaccio a Dante, ascoltami: “Non fa scienza, senza lo ritenere, avere inteso”. Cioè tu puoi leggere tutte le poesie che vuoi, ma se non capisci cosa significano non serve a niente, la cosa più importante è capire il senso di quello che stai leggendo, non le parole ripeterle a macchinetta...». Applausi. Il fatto è che a guardare la tv in quel momento c’è anche un altro professore. Che conosce il senso della terzina citata da Vecchioni, che è un invito a trattenere nella memoria, a memorizzare (“ritenere”) ciò che Beatrice sta dicendo a Dante. Siamo nel V Canto del Paradiso. Il professore si chiama Sandro Consolato e mi manda un messaggio: «Ribaltato totalmente il significato di alcuni versi di Dante. Danno agli altri degli ignoranti e poi dicono cazzate...». Scatta il desiderio di verificare a questo punto.
Bene: nell’edizione della Commedia de I Meridiani si ricorda che Dante traduce in versi una massima di Seneca: «L’avere compreso qualcosa, se poi non lo si ritiene nalle mente, non basta a costituire vera scienza». Si spiega inoltre che la massima ripresa da Dante nel V Canto del Paradiso era diffusa nelle raccolte medievali di sentenze morali. E in aggiunta si riferisce di come la stessa massima viene riportata nei Trattati morali di Albertano da Brescia: «Più suol far prode, se tu tieni e memoria pochi comandamenti di sapere, e averli in pronto in uso,che se tu impari molto e non tenessi a mente». Dice: magari si sbaglia la curatrice Anna Maria Chiavacci Leonardi e ha ragione Vecchioni secondo cui ritenere non significa memorizzare ma «capire il senso di quel che si legge».
E invece vai a guardare ancora e scopri che anche in altre edizioni commentate della Commedia “ritenere” sta per tenere in mente, tenere nella memoria, e perciò quel rozzo leghista di Valditara per una volta sta nel giusto, almeno secondo Dante... Così lo interpreta, quel verbo, il testo critico della Commedia a cura della Società dantesca italiana. E così ancora l’edizione Zanichelli della Commedia a cura di Tommaso Di Salvo. E addirittura Enrico Malato, curatore dell’edizione della Commedia di Salerno Editrice, spiega così il verso citato da Vecchioni: «Non dà conoscenza il capire, ma il non memorizzare». L’esatto contrario di ciò che ha sostenuto il nostro prof cantautore. Anche uno dei primi commentatori di Dante, Francesco di Bartolo da Buti, la mette come tutti: «Niente vale lo imparare, se non si tiene a mente». Conclusione? Dante va maneggiato con cura. E va bene che Sangiuliano esagerò un po’ troppo nell’ascriverlo a destra, ma anche utilizzarlo come un’arma dialettica contro l’attuale governo a volte non risulta conveniente, perché non tutti – anche a destra – siamo “fatti a vivere come bruti” e qualcosa di Dante lo si sa anche di qua, nella trincea dei rozzi e ignoranti.
Detto ciò, sul fatto che Dante a sinistra non fosse poi così amato ho ricordi netti che risalgono ai tempi nel liceo. Quando arrivò in classe un supplente di italiano fresco di barricate sessantottine e così sentenziò. «Dante? Un reazionario che ha scritto un poema infarcito di robe medievali incomprensibili e il cui unico merito fu di avere inventato la terzina».
Optò per farci lezione sul plusvalore di Marx e noi tutti felici perché ci disse di prendere appunti e non dovevamo imparare nulla dal libro di testo. Seguì l’anno dopo un’occupazione con tutti i crismi delle occupazioni anni Settanta e si inscenò un bel rogo di libri. Uno dei quinto anno gettava i volumi da bruciare emettendo sentenze progressiste, in anticipo di quarant’anni sull’ideologia woke: «Al rogo Manzoni, che parla male della lotta di classe. Al rogo pure Dante, reazionario fautore dell’Impero, bigotto e antifemminista che mette Francesca da Rimini all’Inferno». Una sorta di omaggio a Antonello Venditti che cantava all’epoca: «Ma Dante era un uomo libero, un fallito o un servo di partito?». Noi del rapporto tra Dante e la sinistra “riteniamo” nella mente quelle immagini e quelle parole. Il resto viene da sé.
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