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Tagadà, Marco Minniti fa impazzire i comunisti: "No, veramente no"

Claudio Brigliadori
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I dolori del giovane comunista Marco Minniti. Dolori di pancia, letteralmente. L'ex ministro dell'Interno, nelle ultime settimane, è ospite quasi fisso nei talk di La7 per commentare ora lo scandalo del suo Pd a Bruxelles, con il Qatargate che sta travolgendo la sinistra italiana, ora la battaglia del governo contro l'immigrazione clandestina.

Un tema, quest'ultimo, che aveva riguardato proprio Minniti ai tempi del Viminale facendogli guadagnare, si fa per dire, l'odio duraturo delle Ong e del popolo radical-salottiero che tifa Carola Rackete, sempre e comunque. A Tagadà, Tiziana Panella chiede al suo ospite, a bruciapelo, se abbia in tasca il santino di Enrico Berlinguer. «No, veramente no - balbetta un po' spiazzato Minniti -, però per me Berlinguer è stato decisivo. Grazie a lui ho deciso di diventare un funzionario del Partito comunista nonostante la mia famiglia fosse contraria. Figuratevi, avevo un'altra estrazione, venivo dagli studi in filologia classica».

 

E così Minniti si ritrova nella sede del Pci, a inizio anni Settanta. «Nella piana di Gioia Tauro, non so semi spiego». Quindi il ricordo, struggente: «Avevamo la sede di sezione senza bagno. Ma eravamo giovani, eravamo forti...», sospira. Sembra una parentesi, ma diventa il cuore del suo intervento: «C'era solo un balcone interno, avremmo potuto farla lì, ma lei capirà...». Sarebbe interessante sapere cosa ne pensa Antonio Panzeri, il compagno cresciuto (almeno a parole) nello stesso rigore comunista di Minniti ma nella ben più ricca Lombardia, e che una volta sbarcato all'Europarlamento pare essere stato conquistato dall'opulenza dei regali non proprio disinteressati degli amici qatarioti e marocchini.

 

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