Hollywood si prepara allo scontro frontale con la Casa Bianca. Dopo il limbo politico nel quale l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences californiana si è prudentemente trincerata per l’edizione appena trascorsa, attori, registi e produttori americani devono essere giunti alla conclusione che sia davvero arrivata nuovamente l’ora di impegnarsi, attraverso la loro “settima arte”, per incidere di più sulle sorti di una società americana che sia più equa, inclusiva e anche... informata. Per cui a partire dalla prossima edizione, la 98esima Notte degli Oscar, già programmata per il 15 marzo 2026, ci saranno nuove regole per i giurati e anche un Oscar in più: quello al miglior casting, oltre a una consistente apertura all’Intelligenza Artificiale generativa.
Partiamo però proprio dalla nuova regola “obbligatoria” che sembra la più scontata ma non lo è. Anche se la cosa, infatti, potrebbe lasciare stupito più di qualcuno, per la prima volta è stato messo per iscritto che i giurati avranno l’obbligo di vedere effettivamente i film in gara. Non si potranno più fare gruppetti e “conventicole” (per citare il simpatico Sergio Castellitto, genio incompreso del film Caterina va in città). La verifica della visione avverrà principalmente attraverso la piattaforma Academy Screening Room; per le visioni effettuate altrove, i membri dovranno compilare un modulo specificando dettagli come luogo e data della visione. Bene, una riforma meritocratica e individualista si dirà, di marca vagamente liberalconservatrice.
Sta di fatto che è anche l’unico “pannicello caldo” in un mix di altre novità che mischiano “belle intenzioni” capaci di blandire il pubblico di sinistra e il Partito Democratico in fase di ricostituzione dopo la batosta subita, nella quale in nulla sono stati influenti gli endorsement di attori e cantanti. E allora seve più impegno. Qualcosa simile a un indottrinamento (in perfetto stile woke) che vedrà aperta la possibilità di partecipare alla categoria “miglior film straniero” (altra nobità) anche a registi rifugiati o richiedenti asilo che abbiano il controllo creativo del film, pure nel caso sia prodotto nel paese ospitante. Praticamente un vero schiaffo in faccia alle politiche sull’immigrazione dell’Amministrazione Trump. Una carezza, invece, è stata riservata dall’Academy ai produttori, affermando che il ricorso all’IA «non aumenta né diminuisce le possibilità di ottenere una nomination». In parole più semplici via a una deregulation di fatto che col tempo, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe portarci a valutare film con attori sintetici. Del resto il lasciapassare è stato il riconoscimento e la legittimazione di un qualcosa già avvenuto dopo che Adrian Brody quest’anno si è aggiudicato il premio come Miglior Attore per il suo ruolo in The Brutalist parlando un bruttissimo ungherese, reso migliore proprio dall’IA. Discorso simile lo hanno fatto per l’altro film che ha vinto una statuetta: Emilia Perez e le sue canzoni “sistemate” artificialmente con una bella buonanotte ai suonatori, o meglio ad attori e doppiatori. C’era una volta Hollywood. Ma questo non è più un bel film.