Paolo Ruffini: "Che noia il cinema con i soliti noti"

di Daniele Priorimartedì 22 aprile 2025
Paolo Ruffini: "Che noia il cinema con i soliti noti"
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Tutto sommato Paolo Ruffini se si trovasse, come ilprotagonista del suo romanzo Benito, presente! (Baldini+Castoldi) , nei panni di un insegnante catapultato in una classe del 1890 di Predappio, non proverebbe a cambiare radicalmente la storia ma darebbe una speranza in più anche al piccolo Mussolini. «Perché chissà che con la pedagogia o con qualche abbraccio in più il mondo non possa davvero cambiare? Io non ho scritto un romanzo politico. Al massimo pedagogico. E quello che ho scoperto con certezza è che proprio l’amore è quello che manca di più nella politica». Con annesse conseguenze. Sarà per questo che Paolo Ruffini, attore e regista di cinema e teatro, ma anche youtuber da 80 milioni di visualizzazioni con il suo format geniale Il Babysitter, fatto di interviste filosofiche ai bambini, racconta con semplicità e emozione la sua svolta artistica che abbraccia temi come l’infanzia, laterza età e le disabilità.
 

Paolo, ma si è convertito al buonismo? Oppure cosa sta succedendo nella sua carriera di ex ragazzaccio?
«Sto solo inevitabilmente crescendo e cerco di fare cose comunque divertenti. Il Babysitter così come Il Badante li ritengo tra l’altro format profondamente scorretti. Vanno sui social, dei quali ho sempre pensato fossero una cloaca di odio governata da quel dio che è l’algoritmo. Qualcosa che accade perché manca un editore, una linea. Però poi, avendo iniziato a lavorarci io stesso, ho scoperto di trovarmici benissimo proprio perché manca un editore!».

È stato difficile portare a teatro Din Don Down che lei, sdoganando proprio la parola Down, ha definito “lo spettacolo con un cromosoma in più”?
«Continuo a fare, con una certa incoscienza, quello che mi interessa di più perché sono molto curioso e grazie alla curiosità cerco di evitare l’appiattimento totale che c’è».

In quale ambiente in particolare vede questo appiattimento?
«Nel cinema, nella tv. Ma non appiattito sulla bassa qualità quanto sulla mancanza di varietà. Si vedono un po’ sempre le solite tematiche, sempre con i soliti attori e gli stessi autori che fanno film in costume su Pirandello o D’Annunzio per sentirsi intelligenti».

Lei, peraltro, è stato uno dei pochi registi a trattare al cinema il tema della recente pandemia nel film Ragazzaccio. Come spiega questo silenzio?
«Mi sono tolto la soddisfazione di mettere nei titoli scritto e diretto da Paolo Ruffini! (Sorride). Adesso è disponibile su Prime. E c’era pure un ruolo che mi piaceva tantissimo. Ma poi ho trovato Beppe Fiorello e l’ho affidato a lui che l’ha fatto molto meglio di come avrei saputo fare io. Con lui ci sono Sabrina Impacciatore e Massimo Ghini. È la storia di un bullo che ne combina di tutti i colori nella sua scuola ma poi come un cicisbeo, proprio durante il lockdown, si innamora ed è costretto a vivere questo suo innamoramento attraverso uno schermo a conferma dicomela cosa che rimane piùvirale sia proprio l’amore».

Il lockdown, la pandemia sono temi rimasti pressoché ignorati dal racconto cinematografico italiano. Come mai secondo lei?
«Perché c’è uno scollamento totale tra l’autoralità e ilpubblico. I David di Donatello di quest’anno lo confermano. Basta vedere le cinquine nelle quali l’unico film che ha incassato tanto è stato quello di Sorrentino! Su 320 film usciti in un anno solo in tre ci siamo occupati di una crisi contemporanea come quella patita tantissimo dai ragazzi. Io sono andato a presentarlo nelle scuole e mi sono accorto da vicino di quale incubo sia stato per gli adolescenti».

Le farò dei nomi importanti per la sua vita. Lei reagisca con la prima cosa che le viene in mente. Cominciamo con Paolo Virzì.
«Meravigliosamente livornese. La prima cosa bella è uno dei film più belli degli ultimi 25 anni. È il Dino Risi di oggi».

Marco Giusti.
«È stracult! L’aggettivo che ha inventato lui. Un amico coltissimo, un maestro inarrivabile, un mentore, un genio».

I fratelli Vanzina e i loro cinepanettoni...
«Sono diventati avanguardia. Sono come la farsa di Plauto. Dei grandi autori postmoderni che sapevano fare film trasversali sull’immediatezza.

Con Enrico ancora collaboro.
Ho finito da poco a teatro il musical Sapore di mare ispirato al loro film».
 

Belen Rodriguez?
«Bei tempi. Tanti anni insieme a Colorado. È’ una persona fantastica e una grande showgirl che se fosse nata in un’altra epoca sarebbe stata una grande diva. Tra tutte è quella che ha risentito maggiormente delle scosse telluriche che siamo costretti a subire ogni giorno a ondate sui social».
 

Senta, lei sui social lavora coni bambini. Ha mai pensato di diventare padre?
«Potrà capitare...Magari più avanti. Procrastiniamo. (Ride). Io vorrei un nipote più che un figlio perché per me la dimensione ideale sarebbe quella del nonno più che del padre!».
Ma quindi nel suo romanzo per gli 80 anni della Liberazione pure lei si è buttato a parlare di un Mussolini... Bambino ma pur sempre il futuro Duce.
 

«Avete fatto bene su Libero a scrivere che è l’uomo dell’anno. Una fantastica provocazione! Sì, nel mio romanzo c’è questo professore di sinistra che sbattendo la testa torna nel 1890 e si trova a insegnare nella classe di questo piccolo Benito Mussolini. Avrebbe potuto ammazzarlo e risolvere il problema alla radice, invece lui sceglie ancora la pedagogia, provando ad educarlo all’amore... Perché poi il problema di oggi è che anche i pacifisti vogliono importi il loro modo di pensare a tutti i costi.Io invece sono talmente liberale che lascio fare. Tanto poi si capisce da sé che se uno si proclama fascista è anacronistico. La sinistra però dovrebbe imparare anche a essere propositiva oltre che sempre contro qualcuno o qualcosa. È il suo più grande problema oggi».