Sapete come siamo noi adulti, e più nello specifico i giornalisti, veniamo attratti in branco da qualche cosa, una notizia o una storia, la scarnifichiamo, frenetici, e ci danniamo a parlarne. Dopo qualche giorno, al gran fracasso, come lo starnazzar d’ali delle anatre che passano in volo, segue il silenzio. Ed è il momento in cui ci guardiamo indietro e invariabilmente ci accorgiamo che ci siamo persi qualcosa. È successo anche per “Adolescence”, la miniserie britannica di Netflix in quattro puntate, che ha raggiunto il record di 66 milioni di visualizzazioni in due settimane. Il protagonista è Jamie (l’esordiente Owen Cooper), tredicenne dello Yorkshire, arrestato con l’accusa di omicidio. La vittima è una ragazza della sua scuola, accoltellata a morte. La polizia sfonda la porta di casa in un raid all’alba, Jamie viene arrestato e condotto nella stazione di polizia, dove lo seguono i genitori, il papà Eddie (Stephen Graham), la mamma Manda (Christine Tremarco) e la sorella (Amelie Pease).
Le puntante sono autoconclusive e girate in un’unico piano di sequenza (formidabile perché è di quelli veri, senza tagli nascosti). Primo episodio: arresto, foto segnaletiche, visita medica, interrogatorio. Secondo episodio: indagini nella scuola, gironi danteschi di bulli, brufoli, emoticon incomprensibili e paranoie (degli studenti e in egual misura degli insegnanti). Terzo episodio: Jamie in un centro di detenzione minorile con una psicologa (Erin Doherty). Quarto episodio: in attesa del processo, la famiglia di Jamie festeggia il cinquantesimo compleanno del padre. Uno degli sceneggiatori è Jack Thorne, che è su Netflix anche con “Toxic Town”, altro drammone con recensioni che gridano al miracolo: già definito l’“Erin Brockovich” britannico, è la storia dello scandalo dei rifiuti tossici di Corby durante gli anni Ottanta e Novanta.
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In mezzo a tante guerre, divisioni, contrasti, finalmente una “cosa” che mette d’accordo tutti a livel...Il problema di “Adolescence” - ciò che lo rende ruffiano, che fa scrivere a tutti “ogni genitore dovrebbe guardarlo” e lo tiene perciò ben lontano dall’essere un capolavoro- lo ha svelato lo stesso Thorne in un’intervista. Un collaboratore gli ha suggerito di informarsi sulla “manosphere”, l’androsfera, l’ambiente maschilista e misogino degli “incel”, che sta per involuntary celibates, celibi non per scelta. L’espressione è utilizzata per definire maschi etero che non hanno rapporti sessuali perché si sentono rifiutati dalle donne e le accusano di privarli di un loro diritto. Guru degli incel è Andrew Tate, ex campione di kickboxing famoso per i suoi video, indagato per abusi, tratta di esseri umani, sfruttamento della prostituzione.
«I video che guardano i bambini sono molto più oscuri di Andrew Tate» ha raccontato Thorne, «è terrificante. Ho un bambino di otto anni e mi ha fatto venire voglia di metterlo in una scatola e tenerlo lì per i prossimi dieci anni». Praticamente una resa. La serie piace tanto agli adulti perché racconta la nostra vulnerabilità, la rabbia, la paura e le proietta sugli adolescenti. Quando vediamo i corridoi della scuola pieni di arcobaleni, messaggi motivazionali e cartelloni gender friendly; quando la psicologa chiede a Jamie se suo padre è un violento, se guarda altre donne, se va spesso al pub a bere con gli amici; quando ci crogioliamo nella nostra narcosi collettiva senza sforzarci di pensare alla pars construens (compito che un’opera simile sarebbe tenuta a compiere, altrimenti trattasi di documentario), altro non è se non un marasma woke a mo’ di salvacondotto alla nostra inadeguatezza e incapacità di capire le nuove generazioni (aliene per qualunque genitore nella storia dell’umanità). “Adolescence” è autoanalisi. C’è da augurarsi che il prossimo lavoro di Thorne, un adattamento de “Il signore delle mosche” di William Golding, in arrivo sulla Bbc entro la fine dell’anno, resti fedele all’originale.