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"M.", la fiction sul Duce è una telenovela senza guizzi: un'opera buia di cui resta poco

Marco Patricelli
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Da fiction a telenovela. Contrariamente a una soap opera, che si sa quando comincia ma non quando finisce, almeno si conosce la naturale scadenza di «M.», stiracchiata quanto si vuole e come si vuole, con la quinta e sesta puntata, ovvero terzo e penultimo atto della prima stagione. Le figurine ballano sul piccolo schermo e se ne aggiunge anche qualcun’altra (la sedicente moglie Ida Dalser, e soprattutto don Luigi Sturzo) per mettere un po’ di sale e un po’ di pepe al plot già scritto dalla Storia, fonte d’ispirazione di Antonio Scurati col suo «Figlio del secolo» al quale si è ispirato a sua volta il regista Joe Wright nella sua riduzione-dilatazione televisiva. Altro giro di giostra e niente di nuovo sotto il sole, che per cifra stilistica e precisa scelta non si deve vedere mai: ombre senza luce.

E infatti la luce non si accende neppure nello scorrere del periodo in esame, il «secondo tempo della rivoluzione», quando il fez fagocita il cappello a cilindro e Mussolini tesse e cuce «ordine, efficienza e sicurezza», «ordine, disciplina e obbedienza». Attendersi però un guizzo, un climax, un contrappuntistico punto culminante, è vana speranza. «M.» è una sicurezza, da una certa prospettiva: non tradisce mai, è un tema con banali variazioni di come è cominciato, con i suoi pregi e i difetti.

Il fascismo viene insinuato e si ramifica nel corpo malaticcio dello Stato, non è regime ma ne fa le prove generali, il suo creatore è capo del Governo ma già si vede Duce e si comporta come tale. Questo racconta la storia, e questo prova a raccontare la sua trasposizione romanzesca, ricorrendo ad accentuazioni e a compiaciute semplificazioni manichee. «L’amore viene e l’amore va» sulle ali di «Giovinezza», e in attesa di far innamorare gli italiani Mussolini estorce loro il consenso, possedendoli come faceva con le donne di cui si incapricciava, come fece con Rachele, presa sbrigativamente su un divano, e come farà con quante gli si concedevano generosamente a Palazzo Venezia per fugaci amplessi. La Legge Acerbo gli abbreviò i tempi di occupazione del Parlamento col maggioritario («chi vince prende tutto», e il resto lo farà l’opportunismo italiota, con le sue meschinità), la debolezza degli anticorpi democratici gli consentì di infettare il tessuto di una nazione che quando gli resistette non riuscì neppure a salvare la faccia.

 

Quanto alla religione e alla Chiesa, le avrebbe strumentalizzate con lucido cinismo. La fiction è un soufflé che messo nel forno portato dal battage pubblicitario alla temperatura predeterminata, invece di crescere si affloscia a dispetto della gagliardia degli ingredienti. Uno dei quali, le musiche, sono davvero di livello: a parte un frammento con Margherita Sarfatti al piano con la Toccata di Sergej Prokof’ev, le partiture di Tom Rowlands hanno quel nerbo che alla fiction manca a volte per precise scelte stilistiche, in altre perché le difetta proprio sia la forza narrativa sia quella spettacolare di un prodotto televisivo offuscato da un intento didattico-moralistico che si risolve in un balbettante manifesto politico-didascalico. Nelle sue accentuazioni caricaturali e parodistiche fa rimpiangere gli obsoleti prodotti degli Anni ’60 e ’70 in bianco e nero: lenti, claustrofobici, accademici, ma che senza effetti speciali sapevano avere un effetto sui telespettatori che magari i libri non li aprivano neanche. Se al pretenzioso «M.» sfrondi i peana da copione del caravanserraglio promozionale e di militanza, e le detrazioni dell’opposta tifoseria, troppo c’è ma poco rimane.

 

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